L’avventura monegasca è andata meglio del previsto.
Ma andiamo con ordine.
Ingolfata fantozzianamente l’auto di bagagli, in massima parte dedicati all’infante, siamo partiti verso le 10.00. Il bambino era stato pompato di latte materno e omogeneizzato alla frutta. Avevo poi messo via un biberon rovente di latte artificiale e il tupperware ripieno di pappona bollente. In più avevo preparato un biberon di camomilla. Il pargolo ha dormito fino al confine. Per istinto materno ho consigliato a Fabio di fermarsi all’ultimo Autogrill (in realtà dovevo fare anche pipì) perché temevo che Santiago, svegliandosi, si mettesse a urlare. Ma siccome “tanto siamo arrivati”, il marito non si è fermato.
Come da copione, SG ha aperto gli occhi di malumore. E ha iniziato a strillare come un’aquila. Superato il confine, ormai diretti verso Monte Carlo, la strada è tutta curve. Morire che ci sia uno spiazzo dove fermarsi. Finalmente, ad una rotonda, vediamo sorgere un mega albergo con parcheggio di ghiaino, vista mare. Ci fermiamo lì. Esco dall’auto e apro la portiera posteriore per prelevare il bimbo. Mi raggiunge prima l’usciere dell’albergo.
“Madame, il parcheggio è privato, dovete andarvene” mi fa in francese
E io, che un po’ di francese l’ho imparato solo in vacanza quando mi innamoravo di un autoctono, ribatto in ibrido italo-fancese: “Un minuto, per piacere. Un minuto per lui.”
Credo che aver fatto il gesto di tirare fuori la tetta col bambino in braccio, unito al mio sguardo da iena che stava a significare “non osare intralciarmi”, abbia sortito l’effetto sperato. Il tipo ha allargato le braccia sconsolato e io ho allattato sul sedile anteriore.
Lasciati bagagli e auto alla casa in affitto, siamo scesi a piedi con il passeggino fino ai campi da tennis, dove abbiamo raggiunto gli amici. Avevo scordato che il Club fosse tutto disposto su più livelli, raggiungibili solo tramite scale. E su e giù. Col passeggino. Uno davanti, uno di dietro. Su e giù, giù e su. Ormai sono le 14.00 passate e decido di sfoderare il tupperware. Sorprendentemente la pappa è rimasta ancora un filo tiepida e il bimbo se la scofana interamente. E pazienza se, proprio in quel momento, dal campo di allenamento esce il bel Grigor Dimitrov e mi passa accanto senza che io possa neppure contemplarne le grazie: il dovere prima di tutto.
Arrivato il momento di provare a dare un po’ di latte mi rendo conto che forse ho esagerato con la temperatura di stoccaggio: il biberon è completamente deformato, quasi fuso. Opto per la camomilla, che però il bimbo rifiuta (come farà per tutto il resto della vacanza). Rimane la tetta, dopo la quale Santiago si pacifica e, seppure sveglio, ci consente, in braccio, di assistere alla partita di doppio che avevamo previsto. Io sono tuttavia una corda di violino: i piedi che poggiano sulle punte, le braccia contratte, la schiena curva. Temo che possa mettersi ad urlare da un momento all’altro, distraendo i giocatori, attirando l’attenzione. Quando la partita finisce sta dormendo. E io mi sento che posso anche andare a casa, esperimento riuscito, adesso basta però. Invece continuiamo a girare per i campi e per gli stand. E le partite diventano due e poi, dopo il fruttino, tre.
Santiago sempre molto bravo. Anche quando, contro ogni pronostico, riusciamo ad entrare sul campo centrale per assistere a Fognini-Tsitsipas. Nonostante sul Rainier III gli spazi siano enormi e probabilmente il vagito di un bambino sia comparabile ad un battito d’ali di farfalla in un soggiorno, ancora una volta mi sento molto tesa, temendo che il Fogna possa da un momento all’altro girarsi e urlarmi: “Te ne vuoi uscire con quel bambino o devo venire lì?!?”. Invece tutto bene, risultato della partita a parte.
Giunta l’ora di uscire, gli amici propongono di andare direttamente a cena. Mi duole ricordare a tutti che ho un bambino di cinque mesi per le mani e che dovrei preparargli la pappa serale. Optiamo quindi per un breve passaggio a casa. Quale sorpresa quando, varcandone la soglia, scopriamo di aver affittato la copia dell’abitazione di Renato Pozzetto ne “Il ragazzo di campagna”. Praticamente un monolocale con un cartongesso che separa un divano-letto dall’altro. La porta del bagno che confligge con quella d’ingresso. In corridoio, un piano cottura elettrico. Grazie a Dio c’è un balcone, sul quale depositiamo le valigie.
Mi accingo a preparare il pappone serale col brodo liofilizzato, gli omogeneizzati di verdura e di carne. Nuova camomilla. Nuovo latte. Usciamo. La cena è perfetta: mentre aspetto la tagliata, imbocco Santiago che mangia di gusto nel passeggino. Finita la tagliata, lo cambio nel bagno del ristorante. Tornati a casa, deposta la carrozzina accanto al divano letto aperto, occupato quindi tutto il suolo calpestabile, ci mettiamo a dormire dopo il consueto biberon di latte (la camomilla è finita nel lavandino anche questa volta). Incredibilmente il risveglio è stato solo uno, verso le 4.30 (ma ci sta, perché a letto siamo andati quasi alla una). Nonostante questo, complici la stanchezza accumulata e la leggera pendenza del divano letto, ho dormito da schifo.
Alle 8.30 nuovo risveglio, poppata, preparazione del nuovo pappone, latte, camomilla (che sapete già che fine ha poi fatto, anzi no, ma lo scoprirete più tardi) e via. Scesi nuovamente a piedi, fatta colazione al bar, comprati dei panini, arriviamo agli ingressi dove, tuttavia, la coda questa volta è inenarrabile, essendo mattino. Un uomo della Gendarmerie ci si avvicina e, senza che noi proferiamo verbo, ci dice che, avendo il passeggino, possiamo saltare la fila. Non sembra pensarla così la signorina ai controlli, che chiama il suo capo ma, dopo accesa discussione, molla il colpo e ci fa passare.
Vediamo Sonego-Dere, Fritz-Cilic, qualche allenamento e, infine, Delbonis-Zverev. Nel mezzo somministro merenda con fruttino e poi il solito pappone. Questa volta però non lo finisce e decido di richiuderlo e metterlo via. Dopo la merenda del pomeriggio, finite le partite, scegliamo di non passare per casa e andiamo direttamente fuori a cena. Arrivati però sul luogo, aperto il tupperware, scopro con rammarico che il cibo si è letteralmente liquefatto. Lo faccio scaldare, sperando si torni almeno parzialmente allo stato solido. Invece no. Mi spremo le meningi. Recupero il biberon di camomilla, lo apro, me lo scolo alla goccia sotto gli occhi attoniti dei commensali, travaso il pappone nel biberon e lo offro al bambino. Siccome il foro della tettarella è troppo stretto, mio marito lo mordicchia un po’, in modo da allargarlo quel minimo. E Santiago si beve la sua cena. Sì lo so, siamo da Telefono Azzurro. Il piccolo però non sembra accusare il colpo, si addormenta e ci consente di cenare.
Anche la seconda notte scorre inaspettatamente serena. Un paio di risvegli questa volta. Al mattino impacchettiamo tutto tranne le cose da portare ai campi, carichiamo le auto (che però possono restare al condominio) e scendiamo a piedi. Arrivati all’ingresso ci presentiamo come il giorno prima all’ingresso senza coda. Un po’ di resistenza, solita discussione tra il guardiano buono e quello cattivo, poi ci fanno entrare.
A differenza dei giorni precedenti però il sole picchia di brutto e non c’è aria. Entriamo a vedere Fritz-Korda, ma appare subito chiaro che la situazione è insostenibile per Santiago. Nonostante cappellino a larghe falde, crema protezione 50 e ombra fatta da me, temiamo per la sua incolumità. Mi vedo quindi costretta ad uscire. Tuttavia, grazie al buon cuore di un benefattore che lascerò anonimo, mi ospitano nella casetta sopra il Court del Princes e posso seguire così la fine della partita e qualche spezzone di Musetti-Schwartzman in compagnia di coach e giocatori che, tra un match e l’altro, aspettano il loro turno proprio in quell’edificio.
Ho così la fortuna di sedere accanto a Salisbury e di scambiare due parole con Apostolos Tsitsipas che, commentando l’attenzione di Santiago per il match, con aria di approvazione mi comunica che iniziare presto è il modo migliore per imparare il timing sulla palla.
Nonostante io sia riparata dal sole, mi rendo conto però di essere esausta. Il bambino, senza passeggino, è in braccio a me da quasi cinque ore. Anche dargli l’omogeneizzato di frutta e la pappa si rivela complicato, da sola. In più mi scappa la pipì e non me la sento di lasciarlo in braccio a Rublev, che nel frattempo è venuto accanto a me sul balcone, con i suoi occhiali scuri, a guardare la fine del match.
Al termine, in accordo telefonico con Fabio, scendo e ci avviamo verso l’auto. Partiamo presto, non vogliamo trovare coda. Questa volta facciamo breve sosta ad un Autogrill: Santiago ha prodotto un’ingente quantità di cacca mefitica (che avrebbe convinto allo stop perfino il marito più restio) e lo cambio in auto. Poi gli do un biberon di latte riscaldato. E così facendo arriviamo a casa sani e salvi.
Take-home messages:
-prepararsi ad affrontare ogni possibile imprevisto è la chiave per la buona riuscita di ogni avventura
-aver esagerato nei bagagli del bambino (che poi ha usato un completino al giorno e un pigiama a notte) non è comunque stato un errore visto che mi ha permesso di trascorrere due giorni serena. E comunque, almeno per quanto concerne le provviste culinarie, sono fiera del fatto di non aver sbagliato un colpo. Camomilla a parte
-comprare un thermos per la pappa è mandatorio