Questa cosa che Santiago vuole vedere le mucche e io non riesco a portarcelo deve finire.
Me lo continuo a ripetere, mentre spingo la bici su per la salita dei box, il bimbo sul seggiolino posteriore che continua ad esortarmi a salire in sella. E io che gli spiego che, se vogliamo arrivare in cima, devo spingere la bici a piedi.
La usava Fabio questa bici con il seggiolino posteriore, tanti anni fa, quando Pietro e Leo erano piccoli. Io stavo sulla mia Graziella con il seggiolino anteriore, sul manubrio. Non sono abituata ad avere tutto questo peso sulla ruota di dietro. Me ne accorgo non appena comincio a pedalare e Santiago si sbilancia a destra e a sinistra, indicando ora un camion rosso ora il treno. Ne ho la riprova quando, davanti al marciapiede sono costretta a fermarmi: appoggio un piede a terra e, con tutte le mie forze (ancora abituata ad avere il peso sul davanti) tento di sollevare la ruota anteriore per farle superare il gradino. Come quando sollevi il contenitore del latte vuoto, che però credi sia pieno e il braccio si muove fin sopra la testa per quanto avevi calibrato male le forze (e spesso il poco latte sul fondo va a schizzare il soffitto). Perdo il controllo della bici che per poco non si ribalta completamente. Spettacolo grottesco, immagino: una madre che impenna con il pargolo che quasi tocca a terra, tutto reclino su un fianco che grida: “Mamma! Mamma!”. Faccio uno sforzo sovrumano, in bilico sul piede sinistro, riesco a far tornare a terra la bici. Con un secondo tentativo, comunque non senza difficoltà, riesco finalmente a superare l’ostacolo. Vorrei spaccare con una pietra il finestrino del tizio che ha parcheggiato davanti alla discesina del marciapiede, obbligandomi a quella manovra, ma mi contengo, salgo nuovamente sui pedali e riparto. Sto sudando, la scarica di adrenalina che mi ha percorso mentre a pochi metri da casa stavo per far cadere rovinosamente mio figlio dalla bici mi ha surriscaldato.