26 febbraio 2024

Santiago è migliorato, sotto certi aspetti. Non morde più i suoi fratelli quando si arrabbia. Li picchia solo in risposta a qualche provocazione subita. Infatti, nonostante abbiano 12 e (quasi) 15 anni, spesso lo trattano come un loro pari, gli strappano giochi di mano, non gli fanno assaggiare la merendina perché la stanno mangiando loro, lo spintonano se si mette davanti alla TV. Insomma, se da un certo punto di vista posso dirmi contenta dell’integrazione raggiunta, questo tuttavia significa dover spesso assistere a spettacoli piuttosto discutibili. Sì, perché quando parte il litigio, capita di vederli avvinghiati a terra, rotolarsi sul tappeto, in tre, con il povero cane che abbaia ora all’uno ora all’altro, talvolta mettendoci del suo, mordicchiando qua e là una chiappa, tanto per dare un contributo. Diciamo che spesso in casa nostra regna il caos. E a nulla valgono i miei richiami all’ordine, i miei castighi, l’angolino della punizione e similari. 

Talvolta accadono degli incidenti.

Come quella volta che Santiago voleva raggiungere Pietro in camera sua dopo cena, ma il fratello non era della stessa opinione. E così, mentre correva verso il corridoio, tirandosi dietro la porta della sala, non si è accorto che il piccolino gli era molto vicino e che, per giunta, teneva in mano un bicchiere, sottratto al tavolo della cucina, mentre stavo sparecchiando. La porta si è chiusa sulle mani di Santiago, strette attorno al bicchiere, che ovviamente è andato in mille pezzi causandogli un taglietto per fortuna molto piccolo sulla piega del mignolino. Tanto spavento, qualche giorno per guarire (posizione molto difficile da mantenere pulita e lembi di ferita non facilmente accostabili) e la consapevolezza che nonostante i cento occhi puntati addosso, non si riesca mai a prevenire.

Come l’altra sera, quando rientrando a casa dopo aver ritirato Pietro dalla nonna, trovo il bimbo in lacrime a tavola, mentre Fabio sta servendo la cena nei piatti.

“Si è ustionato con la pentola?!” chiedo

“No, si è scottato mettendo il dito nel purè!”

Corro da lui, prendo un tovagliolino e gli pulisco il dito, ma lui mi indica la bocca. Lo porto al lavandino gli sciacquo la bocca e poco dopo smette di piangere. Ma io so che deve essere successo qualcosa. SG non piange mai, non così. Ed infatti, un’oretta dopo, quando sul fasciatoio iniziamo la pratica di svestizione e cambio pannolino in vista della nanna, mi accorgo che, accanto al labbro inferiore, a sinistra, spicca una vera e propria bolla, due in verità, affiancate, segno di una ustione di secondo grado. Probabilmente non solo aveva messo la mano nel purè, ma aveva fatto in tempo a spalmarsene un po’ sulla guancia. Ora sta guarendo, sperando non si infetti, ha già la crosta. Io mi auguro solo che da queste esperienze tragga qualche insegnamento. 

Di fatto ora, quando prova a prendere un bicchiere di vetro anziché il suo di plastica, basta la frase: “Lascialo subito, che poi ti tagli il dito!” perché lui lo molli all’istante. E forse, d’ora in poi, quando gli diremo di non mettere le mani nel piatto senza usare le posate, lo farà. 

L’abbiamo iscritto all’asilo. Partita con l’idea di portarlo al comunale accanto a casa, al quale si potrebbe arrivare anche a piedi (meglio dire si dovrebbe arrivare a piedi, visto che non c’è un parcheggio comodo nelle vicinanze, cosa che però implicherebbe tragitto non brevissimo senza auto anche in caso di condizioni meteorologiche avverse), in un impeto di nostalgia mi sono ritrovata a pensare alla piccola scuola materna paritaria alla quale sono andati i miei due figli grandi, all’epoca veramente sotto casa, gestita da una comunità di suore, con maestre laiche, realtà piccina, raccolta, ad orientamento cattolico. Peccato, mi sono detta, che non abitiamo più in quel quartiere! Ma perché non provare? Su consiglio di Fabio sono andata a parlare e salta fuori che il quartiere non è lo stesso, ma la giurisdizione della parrocchia sì e che, avendo avuto due figli che hanno frequentato in precedenza, con entrambi i genitori lavoratori, possiamo beneficiare di un certo numero di punti bonus valevoli per la graduatoria. E così, scopriamo che Santiago Gabriele a settembre, dieci anni dopo Leonardo, frequenterà la medesima scuola dell’infanzia. Certo, molte cose sono cambiate, niente più suorine (la comunità non c’è più), tre sezioni anziché quattro, quasi tutte maestre nuove (qualcuna però è rimasta e si ricordava di noi), ma a detta della direttrice, ancora tante belle attività e anche qualcosa in più! Io spero solo che il confronto con altri bambini ed educatori possa aiutare Santiago in questa difficile fase di crescita.

Sembra più grande della sua età, alto, muscoloso, strutturato, agile. Sale sullo scivolo arrampicandosi sugli speroni della parete come un vero montanaro. Gioca a calcio e a tennis con entrambi i piedi e le mani, anche se predilige la mano sinistra per impugnare la matita (in questo è in tutto e per tutto come la mamma). Ancora non parla, pronuncia solo poche parole, per lo più storpiate. Il vocabolario si è ampliato, lo ammetto, ma il lessico, come direbbe la Ginzburg, rimane prettamente familiare. “Pizza” è “Unca” (con la “U” nasale, difficile da emettere, lo sa fare solo lui). “Torta” è “Totta”. “Acqua” rimane “Uaua”, come sei mesi fa. “Latte” è “Lacce”. E quando vuole essere preso in braccio dice “Oppa!”. Però sa dire “Grazie” e, se gli chiedi dove sono i suoi fratelli, ti risponde: “Di là!”. 

“Pietro” è diventato “Puppu”. “Leo” si chiama “Ioia”. E quindi ad esempio, se si trova nel lettino ma vuole dare un ultimo saluto ai suoi fratelli prima di dormire, mi guarda e mi dice: “Oppa! Ciao ciao Puppu! Ciao ciao Ioia!” E come resistergli?

La messa a nanna rimane ancora un mio punto di vanto. Sì perché il pargolo, dopo quell’unico goffo tentativo di evadere dal lettino, esitato in un trauma cranico sul pavimento della cameretta, non ha più tentato il colpaccio. Tant’è vero che ho addirittura rimosso i cuscini protettivi da terra, dopo che ho appurato che l’infante non avrebbe più provato a scavalcare la spondina. E quindi a 2 anni e 3 mesi di vita, riesco ancora a metterlo a letto tra le 20.00 e le 20.30, a volte con un libro, a volte con il pupazzo di Spiderman, a volte con il camion dei pompieri, a volte con tutti i peluche della casa, sotto cui ama seppellirsi. Saltuariamente vuole che gli canti la ninna nanna, ma per lo più è un trucco per farsi riprendere in braccio. Spesso guardiamo insieme le stelline dell’orso musicale, che proietto sulle pareti della camera mentre facciamo “Woooooow!” insieme. Poi lo metto giù, regolarmente accende la luce (si addormenta con la luce accesa), gli dico: “Leggi un po’ di libro e poi, quando sei stanco, fai la nanna!”. E me ne vado. E non torno più. La maggior parte delle volte funziona. Da lì in poi la serata è libera. Quindi capita anche che io poi riesca a uscire con qualche amica: avendo ottemperato ai miei doveri materni, mio marito è più accondiscendente. La maggior parte delle volte però ci ritroviamo sul divano, a guardare insieme a i ragazzi una serie TV o un film. E spesso poi, al massimo alle 22.00, siamo già tutti a letto. O almeno, noi genitori…

Qualche volta va male e Santiago chiama a gran voce papà, mamma, Ioia, Puppu e perfino Verdell. Spesso basta ignorarlo, che dopo poco si acquieta. Qualche volta però si odono rumori strani e infine un profondo silenzio. E quando andiamo a sbirciare capita di trovare un pandemonio: pupazzi gettati in ogni dove, lenzuola e cerata a terra, libri divelti in mille pezzi. Il bambino che giace sull’asse di legno nuda del lettino, giacché è riuscito a sollevare e buttare al di là delle spondine anche il materasso. Qualche volta il materasso invece lo tiene a guisa di coperta, ci si mette a dormire sotto. E non vi dico la sensazione di sconcerto quando, ad una prima occhiata al lettino, sembra che il bambino sia scomparso…

Insomma, è un ragazzino impegnativo. Credo che sia ancora possibile metterlo a nanna così presto per via delle energie che quotidianamente consuma. Mai fermo un minuto, sempre in movimento, sempre attivo.

Difficile intrattenerlo con occupazioni sedentarie. Da poco si riesce a leggergli qualche libro, sta imparando ad aspettare a voltare pagina. Con la nonna ha anche iniziato a disegnare, ma spesso, almeno con me, non ha pazienza. Mi mette in mano una matita colorata e, non appena provo a tracciare una riga, me la toglie, me ne dà un’altra e poi me la prende. E così via. Al che mi spazientisco per prima io, gli dico di disegnare da solo. Ma non vuole, mi porge un altro colore e ricomincia il tira e molla. Però sa leggere le letterine. Riconosce tutte le vocali se gliele indichi e sa scrivere la propria iniziale. Ma guai a chiedergli come si chiama: una sola volta ha risposto “Scianciaguuuu” e la festa che gli abbiamo fatto è stata tale che si è ben guardato dal ripetersi, come Paganini. E quindi, se gli chiedi come si chiama, ti guarda in tralice e ti risponde “Papà” oppure “Mamma” oppure “Puppu” oppure “Ioia” oppure “Verdell”. Ma mai che ti dica: “Io sono Santiago!”

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