20 giugno 2023

Ho perso il bambino nel cortile del condominio.

Stava lì, un minuto prima. Un minuto dopo non c’era più.

Eravamo usciti a fare un giretto con il cane, perché in casa, nonostante fossi appena rientrata, esausta, dopo una lunga giornata di lavoro, non ci resistevo più, con lui che andava ovunque, rovesciava oggetti, saliva sulle sedie, apriva i cassetti della cucina.

Siamo usciti per andare all’oratorio, dove pensavo avrei trovato i ragazzi a giocare.

Siamo usciti senza passeggino. Errore. 

Appena svoltato l’angolo Santiago ha cominciato a mollare la manina.

“Dammi la manina. Lo sai che senza la manina non si va in strada!”

Da una parte il guinzaglio, dall’altra la mia mano che cerca di afferrare il suo braccino sgusciante in ogni dove. 

Mi trascino così, con un’incipiente scoliosi sinistro-convessa, verso l’oratorio e, quando vi arrivo a fatica, scopro che è chiuso. Non c’è traccia dei fratelli e comprendo in un istante che non avrei avuto supporto alcuno nella gestione del pargolo, gradevole pensiero nel quale mi ero crogiolata per tutta la via crucis fino alla parrocchia. 

Improvvisamente sento che fa caldo. Troppo caldo. Caldissimo. Basta, un tentativo l’ho fatto. Torniamo a casa, che è meglio. Per velocizzare il rientro decido di prendere SG in braccio in modo tale da riportare la colonna vertebrale in posizione eretta. 

Ovviamente a metà strada il cane decide di deporre le sue deiezioni sul marciapiede, il che mi costringe ad accovacciarmi con l’infante appoggiato su un ginocchio, guinzaglio sotto l’ascella, sacchettino alla mano. Non mi arrendo. Ce la faremo anche questa volta.

Varco il cancello del condominio e con un sospiro liberatorio appoggio il bambino a terra.

Mi guarda con aria furbesca e comincia a camminare verso la seconda torre, in costruzione. 

“Vieni qua, che andiamo a casa!” gli urlo.

In quel mentre, dal portone della torre dove vivo, esce un signore, vestito da tecnico dell’impianto di refrigeramento. Mi sovviene che proprio quel giorno ci sono stati i controlli appartamento per appartamento. Non avevo dato il mio nominativo perché sapevo che sarei tornata tardi e che a casa non ci sarebbe stato nessuno.

“Salve” dico “Tutto bene? Sa, non le ho dato il mio numero di appartamento perché sapevo non ci sarei stata…”

“Sì signora, pochi problemi in qualche appartamento, ma niente di grave. Vedrà che anche nel suo sarà tutto perfettamente funzionante”

Guardo Santiago, ormai vicino alla torre in costruzione, sparire dietro al muretto dietro al quale si trovano le biciclette legate alle rastrelliere.

“Santiago, torna qua!” e rivolgendomi al signore: “E trova che le temperature rilevate dal termostato corrispondano realmente alla temperatura ambientale? No, perché sa, sembrano valori diversi…”

“Sì signora, il valore è giusto, non è vero come dice qualcuno che c’è uno scarto di un paio di gradi!”

“Ah ok, va bene. Senta, mi scusi, ma devo andare, che non vedo più il bambino” sogghigno ironicamente e aggiungo: “Non vorrei mai che mi sia caduto in qualche tombino!”

Mi avvio verso il muretto della seconda torre, convinta di trovarlo a giocare con i pedali delle biciclette, come suole fare.

Ma, svoltato l’angolo, Santiago non c’è.

“Santiago! Dove sei?” 

Silenzio. Avverto una debole morsa allo stomaco. Ricaccio la paura in fondo e mi dico che non può essere andato lontano.

Entro nell’androne della torre in costruzione e sento riecheggiare la mia voce che chiama il suo nome a vuoto. La porta delle scale antincendio è aperta. Scendo la prima rampa. Non c’è. Chiamo il suo nome. Silenzio. Torno indietro, esco e comincio a correre verso il retro della torre. 

L’avrà circumnavigata mentre io guardavo dentro, sicuramente è andata così. Supero la prima facciata, svolto, non c’è. 

Dirigendomi verso l’angolo successivo comincio a sentirmi la gola chiusa, un sibilo asmatico comincia a stringermi il petto mentre continuo a correre, tirandomi dietro il cane al guinzaglio. Passo sull’erba appena seminata, saltando le recinzioni poste a protezione, facendo impigliare il guinzaglio nei picchetti infilati a terra e facendo sbattere l’animale contro ogni paletto.

“Santiago! Dove sei?” 

Ho ormai completato il giro intero della torre, ma del bambino non c’è traccia.

Esce una signora dalla torre in costruzione. 

“Ha visto un bambino? Non trovo più mio figlio!”

“Ma come? Un bambino? No, non l’ho visto! Quanti anni ha?”

E dicendolo, mi sento un verme, una persona immonda: “Anni? In verità ha solo un anno e mezzo!”

Mi guarda sorpresa, negli occhi una domanda: ma come si fa a perdere un bambino di un anno e mezzo?

La signora inizia a chiamare Santiago a gran voce. Si unisce un’altra donna. Poi un signore anziano.

Siamo in quattro a girare per il giardino. 

Mi vengono pensieri assurdi.

Avrà trovato una breccia nel muro di cinta che confina con la ferrovia. Sarà finito sotto un treno.

Sarà sceso per le scale che portano ai box. Ecco, sì, come ho detto al signore ridendo: mica che mi cada in un tombino! Sarà caduto in una di quelle botole con quelle scale ripide, non le sa fare le scale, sarà caduto sul primo gradino e sarà rotolato giù rompendosi tutte le ossa. Mi avvicino verso l’apertura della rampa e mi tappo gli occhi con la mano per ritardare il momento in cui l’avrei trovato in fondo, la testa girata in posizione innaturale, in una pozza di sangue. 

Tolgo la mano e lui non c’è.

Sento passare un’auto sotto di me. Ma certo. E’ sceso nei box dallo scivolo. Corro in quella direzione. L’auto l’avrà schiacciato, vanno veloci là sotto e lui è basso, non arriva all’altezza dei fari. Avranno sentito un tonfo sordo, ci saranno passati sopra e solo quando saranno scesi a controllare avranno scoperto che quello che avevano investito non era un gatto. Sarà irriconoscibile, la testa spappolata, ma io saprò che è lui.

“Santiago! C’è un bambino? Rallentate! Attenti che c’è un bambino!”

Ma il bambino non c’è.

Il signore nel frattempo è andato a cercare fuori dal cancello. E certo: se una macchina è entrata, il cancello si è aperto. E Santiago può essere uscito. Sarà in strada. Sarà lontano. 

Torno verso la torre in costruzione. Il cane, ormai appeso all’estremità del guinzaglio, sbava dai lati della bocca. Mi fermo nel prato.

Non lo troverò mai più.

Basta è inutile.

Di già? Ti arrendi di già?

Eh, ma non c’è più, è sparito. L’avrei già trovato e invece non c’è più.

Cosa dirà Fabio?

Ma come hai fatto a perderlo?

Eh perché a te non scappa mai? Avrei voluto vedere te… è stato un attimo solo. Parlavo con l’omino del raffrescamento. Lui ha girato il muretto delle bici e io ho chiesto se i due gradi di differenza fossero veri. Ho solo fatto una domanda in più rispetto a quelle che avrei dovuto fare. Avevo appena perso il contatto visivo e mi sono detta che fare una domanda in più non sarebbe stato un problema. Che poi, cosa me ne fregava di fare una domanda come quella? Due gradi in più o in meno. Il sistema di raffrescamento funziona, te l’aveva già detto. Forse volevi fare solo conversazione. Forse eri solo stanca. 

Non saremo mai più una famiglia. Ho perso Santiago. 

Adesso lo trovi.

No, non c’è più.

Senti le voci: lo chiamano ancora gli altri signori e tu non lo cerchi più?

E’ morto, non c’è più.

No. Me l’hanno portato via.

Denise Pipitone.

Me l’hanno portato via.

Ma quando? Era dietro il muretto, non è entrato nessuno.

No, ma è uscito lui. 

Ma quando? 

Quando sei entrata nella torre, lui è sgattaiolato via, in una breccia del muro di cinta.

O è entrato qualcuno, l’ha preso, l’ha portato via.

Ma chi?

Si ricorda come era vestito, signora? Sì, aveva i calzoncini gialli e una magliettina a righe blu e bianche. 

Ci vogliono foto segnaletiche. Le metteremo ovunque. 

La testa sta pulsando, forte. Sento salire i conati di vomito. Oddio adesso vomito. 

Vado a casa. Basta, vado a casa. Non c’è.

Lo troveranno forse, magari domani, ma ora non c’è.

Invece di andare verso casa torno dentro la torre in costruzione. Mi avvio nuovamente verso le scale antincendio. Scendo di nuovo la prima rampa. 

All’improvviso, flebile come un sussurro, sento un verso di bambino.

Mi precipito giù per la seconda rampa e, sul pianerottolo, schiacciato contro la parete, lo vedo. Si dondola avanti e indietro, tenendo in mano un pezzo di scotch di carta da cantiere. Sembra canticchiare qualcosa, credo sia terrorizzato, ma mi sorride.

“Cattivo! Dove sei andato da solo? Non si fa! Non si fa! Non si va da soli!”

Mi avvicino e sono indecisa se abbracciarlo o dargli un ceffone. Lo prendo per le spalle e lo scuoto dolcemente: “Hai capito che non si fa? Mai più, mai più!”

A questo punto lo prendo in braccio. Risalgo le scale, mi sembra pesantissimo. Arrivo in cima e grido a tutti: “L’ho trovato! Era giù dalle scale!”

Mi si avvicinano al capannello di persone e fingo tranquillità e spensieratezza. Sfoggio il mio miglior sorriso: “Grazie a tutti, veramente e scusate il disturbo! Alla fine era nel primo posto dove ho guardato, solo che era sceso più in giù! Lui ama nascondersi, anche a casa. Dietro le porte, il fasciatoio etc. Lo chiami e fa apposta a star zitto, peraltro non sa ancora parlare quindi non è che poteva dirmi “sono qua”. Sì, è un monello, vero? Non si fa, gliel’ho detto. Poi la verità è che le scale non le sa fare, quindi dopo la prima rampa mi son fermata. Magari per arrivare fin là sotto è rotolato giù, per quello che quando l’ho trovato era un po’ spaventato. Comunque grazie a tutti, davvero e scusate ancora il disturbo!”

Mi avvio alla mia torre, questa volta davvero. Mentre salgo in ascensore il dolore alla testa è diventato lancinante. Pulsazioni ripetute sincrone con il mio battito cardiaco, che non accenna a diminuire. I conati di vomito si fanno più forti. Ora vomito. Oddio, ora vomito in ascensore. 

Invece raggiungo la porta di casa, infilo stancamente la chiave e conto i secondi che mi separano dal varcare la soglia. Mi richiudo il battente alle spalle e raggiungo il divano. Ci crollo sopra e scoppio a piangere. 

In quel momento squilla il telefono. E’ Fabio, dalla Sicilia, è via per un congresso. Mi sta videochiamando. Rispondo e gli racconto tutto. 

“Beh, dai, stai tranquilla, l’hai trovato!”

Io non smetto di piangere, tornano i ragazzi mentre sono ancora al telefono, il mascara che cola sulla guance, io che non smetto di piangere singhiozzando come una bambina.

Ridono tutti, Fabio, i ragazzi, anche Santiago e forse anche il cane. 

“L’hai trovato, non è successo niente, dai smettila di piangere!”

“Pensavo fosse morto! Ero sicura fosse morto!”

Leonardo mi abbraccia. Mi scosta i capelli che si sono appiccicati alle guance, mi dà un bacio e mi dice: “Mamma, guarda, non è morto: è lì!” e mi indica Santiago, che nel frattempo si è arrampicato sulla sedia girevole della scrivania pronto per una nuova monelleria.

“Hai ragione” rispondo.

Mi soffio il naso, saluto Fabio e vado a preparare la cena.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.