12 novembre 2021

Sono le 15.00 di giovedì pomeriggio. Il tampone l’ho fatto ieri, Covid negativo. Suono al Pronto Soccorso Ostetrico come da indicazioni.

“Sono qui per il ricovero programmato”

Mi aprono. Non era proprio così che l’avrei immaginata, questa fine gravidanza. Quante volte in questi nove mesi ho pensato al mio arrivo al PS. Arriverò di notte, no, di giorno, no, la sera. Arriverò perché mi si saranno rotte le acque, non ho mai provato, chissà com’è. Le romperò a casa, di notte, nel letto, no, in auto, no, per strada. Arriverò già dilatata, arriverò e mi diranno: “Appena in tempo, signora, ancora un po’ che aspettava e…”. Arriverò dopo che avrò fatto partire il travaglio a casa, con i bambini, chissà che esperienza da condividere e ricordare negli anni! Avrò monitorato la situazione, avrò capito quando sarebbe stato il momento giusto per uscire, ci siamo, lo sento, andiamo.

E invece no. Un citofono. E la mia voce: “Sono qui per il ricovero programmato”.

Entro, mi fanno sedere all’accettazione. Compilo dei moduli. Chiedo un po’ imbarazzata se è disponibile la camera in solvenza. Avevo invidiato molto una mia amica che, ormai dodici anni fa, aveva trascorso la degenza in solvenza. Mi ero detta, in occasione di quest’ultimo figlio, in era Covid, mi voglio viziare: non capiterà mai più. Eppure mi sento in colpa (so che la degenza me la vogliono pagare i parenti, come regalo), mi chiedo se ne valga la pena.

Mi rispondono che non lo sanno, di chiedere più tardi alle ostetriche. Mi misurano la pressione (130/70, molto strano, mai avuto valori così alti) e mi portano in astanteria. Inizio il monitoraggio. Ovviamente nessuna contrazione, il bimbo però si muove di continuo. Tengo aggiornati Fabio, mia mamma, le amiche. Poco dopo arriva un medico, mi chiede la documentazione e mi comunica che mi visiterà più tardi. Prendo il libro di Stephen King, manca poco alla fine, comincio a leggere, ecco lo sapevo, avrei dovuto portare un libro nuovo, perché quando volterò l’ultima pagina non avrò più nulla da fare. Nel frattempo mi fanno un prelievo di sangue, posizionano l’agocanula, mi fanno l’elettrocardiogramma. Alle 16.30 torna il medico, mi controlla l’anamnesi e mi spiega che in base all’esito della visita decideranno come procedere. Convinto di trovare il collo dell’utero chiuso, mi prospetta il posizionamento del cosiddetto palloncino, una specie di catetere con un’estremità da gonfiare con fisiologica che si ancora nel collo dell’utero e che, per azione meccanica, piano piano ne sollecita la dilatazione e quindi la partenza delle contrazioni. Questo palloncino va tenuto dodici ore al massimo. L’idea è di metterlo e poi portarmi in reparto ad aspettarne gli effetti, rottura delle acque o fuoriuscita del palloncino (che starebbe ad indicare l’inizio della dilatazione e quindi del travaglio). Qualora dopo dodici ore non ci fossero effetti, si passerebbe alla somministrazione di prostaglandine per via orale. Se invece alla visita trovassero il collo parzialmente dilatato, il programma sarebbe l’applicazione di un gel a base di prostaglandine direttamente sulla cervice. 

“Ma vedrai che sarai tutta chiusa, quindi metteremo il palloncino!”

Già partiamo male, mi dico. Ho avuto per due volte contrazioni durate due pomeriggi interi, mi hanno fatto lo scollamento quattro giorni prima, perdo sangue e muco da giorni, come è possibile, visto che sono passati con due dita, che io sia chiusa? Cerco di spiegarlo, ma mi rassegno al fatto che tanto poi sarà la visita a parlare.

Un’ora dopo, finalmente, la visita. Ebbene, sì, il collo si conferma lungo almeno 1.5 cm come aveva detto l’ultima volta anche la mia ginecologa, ma è cedevole ed, in effetti, passano due dita (è dilatato almeno 2 cm!). Mi sento meglio, che fortuna, temevo che le cose sarebbero andate per le lunghe.

“Ti trasferiamo in una stanzina, accanto alla sala parto che stanno pulendo. Il gel lo applicheremo lì. Prima però facciamo una mezz’oretta ancora di tracciato. Dopo l’applicazione dovrai fare altre due ore di tracciato e, se non parte nulla, vieni portata in reparto, altrimenti resti in sala parto”

Ok, mi dico, ci siamo. Mi portano in una bella stanza, due letti, solo io all’interno. Un bagno vicino. Il mio libro. Tutto perfetto. Mi attaccano al monitoraggio e… accidenti, avverto delle contrazioni! Il tracciato è inequivocabile, contrazioni regolari, simili a quelle che avevo avuto a casa, poco dolorose ma presenti. Saranno state attivate dalla visita interna. Arriva un’ostetrica, Alessia, accompagnata da una studentessa straniera. Si presenta, osserva il tracciato e mi spiega che, con le contrazioni, le prostaglandine probabilmente sono controindicate per rischio di sovraccarico di stimolo. Mi lascia attaccata un po’ ancora, così vediamo come evolvono. Comincio a protestare tra me e me. Non evolvono, fidati! Sono le stesse che ho avuto quando ho preso l’olio di ricino, possono durare anche ore, ma non partirà mai nulla con queste contrazioni! Dopo un’altra mezz’ora mi staccano e mi portano da mangiare, pasta in bianco e pollo. Spero di non vomitarli più tardi. Torna l’ostetrica e mi dice che adesso ne parla con i medici, ma che lei non pensa si possano usare le prostaglandine.

“E quindi???”

“E quindi o si aspetta…”

“Si aspetta cosa?”

“…Oppure si ricorre ad un’altra strategia, tipo rompere le acque. Questo dovrebbe indurre subito la partenza del travaglio”

Mi sembra una buona idea, anzi un’ottima idea. Niente palloncini, niente dodici ore di attesa, niente farmaci. Semplice, chiaro, lineare. Mi rompono le acque, proprio come immaginavo sarebbe successo a casa con il mio tanto immaginato parto naturale, inizia il travaglio, nasce il bambino. Prego che i medici siano d’accordo.

Si sono fatte nel frattempo le 21.30, mi sembra assurdo, sono qui da più di sei ore e ancora non è successo nulla. Avrò fatto bene? E se poi fosse partito tutto da solo aspettando qualche giorno ancora a casa? Perché sono qua?

Alle 22.00 mi dicono che è l’ora, mi portano in sala parto per rompermi le acque.

“Appena rompiamo il sacco però chiamiamo tuo marito! Dove abitate? Perché sai, terzo figlio, c’è gente che dopo la rottura l’ha fatto in un quarto d’ora!”

Fabio è a casa, siamo già d’accordo che lo chiamo quando parte tutto. Mi riattaccano al monitor per un po’, infine arriva la dottoressa: “Buonasera, allora, pronta? Rompiamo le acque, non fa male.”

Lo so, me le hanno rotte anche per Pietro, durante il travaglio lunghissimo, dopo che le contrazioni si erano fermate per via dell’epidurale e prima di mettermi l’ossitocina. E l’avevano fatto anche per Leo, sempre a travaglio inoltrato, e dopo questa manovra, in un’ora e mezza avevo completato dilatazione ed espulsione.

La dottoressa inizia a ravanare. Il fastidio è quello della visita. Ma qualcosa non mi piace, sento che spinge per bucare il sacco, ma questo non sembra volerne sapere. 

“Che strano” dice “Non riesco a bucarlo… Il primo strato ora mi sembra di sì, ma non riesco a rompere quello interno…”

Già mi figuro il bambino trapassato da una stilettata mortale. Poi penso al fatto che col cavolo si sarebbe rotto da solo (e dire che questo bimbo mi ha preso a calci pugni con una veemenza inaudita dal primo giorno in cui le sue condizioni gli hanno permesso di farlo)!

Finalmente sento un rivolo di liquido caldo scorrermi tra le cosce. Pensavo molta più roba. Lo raccolgono, chiedo di farmelo vedere. “E’ rosato” mi dicono tranquilli. E quando lo portano via vedo che è rosato effettivamente, cioè tinto di sangue. E mi dico, non dovrebbe. Dovrebbe essere trasparente. Perché è rosato? Ma non c’è tempo. 

“Signora, chiami suo marito!”

Certo, certo, subito. “Fabio, mi hanno rotto il sacco, dicono di venire perché potrebbe nascere in meno di mezz’ora”. 

“Ok” mi dice “Arrivo”. La voce è assonnata, probabilmente si era sdraiato per ottimizzare la nottata. Sono le 22.30. 

Farà in tempo? Ti prego, fa’ che arrivi in tempo! Ti immagini se arriva e io ho già finito? Nove mesi ad aspettare questo momento, lo programmi pure, e poi te lo perdi! A questo punto nascerà l’11 novembre? O andremo al 12 novembre? E alla fine, che nome metteremo al bambino? Santiago, come segno di devozione a San Giacomo, quando, percorsi i 125 Km di Cammino, arrivata alla cripta custodita nella Cattedrale a Compostela, ho osato chiedere la grazia di un altro figlio? O Gabriele, nome che aveva raccolto il consenso di tutta la nostra famiglia, quando, sfogliando il libro e votando, ci siamo trovati a sorpresa ad aver dato quattro “SI’”? So solo che al momento della compilazione dei moduli, alla voce “Nome attuale del bambino” ho scritto “Santiago Gabriele”. Il fatto che lo spazio fosse dedicato per l’appunto al “Nome attuale” mi lasciava pensare che avrei potuto anche ripensarci dopo. 

Fabio arriva dopo quindici minuti. Mi guarda e mi dice: “Tanto tu sei lunga in queste cose!”

Mi sento in colpa di averlo fatto venire e anche del fatto che abbia lasciato i bambini. Le contrazioni non sono forti. Quando il bambino si muove però perdo fiotti di liquido, stento a credere che quei due assorbenti esterni che mi hanno messo possano contenere tutta quella quantità. La sensazione è quella di allagare tutto. Ho paura di sporcare, continuo a chiedere di verificare che i presidi tengano.

Alle 23.30 ancora ho contrazioni deboli, forse lievemente più forti di quelle che avevo in astanteria. Mi sorprendo a pensare al romanzo che non ho finito.. Il protagonista riuscirà a vendicarsi? La ragazza alla fine resterà con lui? Vorrei poter continuare a leggere. Ma il senso di colpa, assurdo e innaturale, lo provo anche nei confronti delle ostetriche. Mi sembra che sia colpa mia, il travaglio non parte! Sono qua tutti intorno a me e io cosa faccio? Niente! Fabio si appisola sulla poltrona. Io cerco di fare conversazione: quando ho le contrazioni avviso sempre (come se non fossi collegata al monitor), provo a rendermi compagnia gradevole anche per la studentessa straniera. Parlo in inglese, racconto i miei parti precedenti, mi informo sul suo periodo di formazione in Italia. Mi spiega che tra pochi giorni se ne torna a casa e che queste ultime notti sono andate male per lei, che non è riuscita a vedere nessun parto perché hanno avuto delle situazioni complicate, che si sono protratte e che poi hanno sforato nel turno successivo. 

Fantastico, mi dico, di buon auspicio. 

“No, stai tranquilla!” interviene prontamente Alessia “Non sarà il tuo caso! Terzo figlio, vedrai che parte tutto! Ci sono altre due donne in corso di induzione nelle sale parto accanto, entrambe al primo figlio. Vedrai che finisci prima tu!”

All’ennesimo scroscio di liquido cambiamo gli assorbenti e quel che vedo non mi tranquillizza: il liquido è tinto, marroncino, ci sono dei frustoli dentro ed è maleodorante. 

“Perché è sporco?”

“Avrà fatto un po’ di meconio, lo teniamo monitorato, se non peggiora non succede niente!”

E’ mezzanotte e mezza, le contrazioni sono un po’ più forti, chiudo gli occhi per lasciare passare l’effetto. Mi chiedono se somigliano a quelle da travaglio che ricordo. 

“No, assolutamente! Sono sopportabili! Quando ero in travaglio alla fine urlavo e chiamavo la mamma, almeno con Pietro è stato così…”

Ma poi penso: e se fossero queste le contrazioni giuste? Se io, che so, avessi sviluppato una maggior tolleranza al dolore? Se io avessi un ricordo distorto del dolore, se questo fosse davvero, per grazia, il dolore più forte che io devo soffrire per questo figlio? Come sarebbe bello, magari è così, dopotutto mi hanno rotto le acque! C’è gente che in un quarto d’ora partorisce dopo la rottura delle acque! 

Vado un paio di volte a fare la pipì. Ricordavo le contrazioni durante la pipì come particolarmente fastidiose durante il travaglio, ma, anche qua, riesco a fare tutto senza troppi problemi. Il liquido nel frattempo è tornato rosato.

E’ dalle 23.00 praticamente che sono in piedi, sperando di stimolare un po’ di più, ma comincio ad essere stanca. Mi propongono di sedermi sulla palla. Anche questa la ricordavo scomoda e invece ci sto proprio bene sopra, troppo. Le contrazioni mi sembrano diradarsi e scemare di intensità. All’una mi alzo nuovamente, così non va. E quindi passiamo a fare esercizi: Alessia sistema la poltrona come fosse un alto gradino e mi chiede di salire e scendere come su uno step. Passiamo poi a fare gli squat, lei che mi tiene le mani, io che temo per le mie ginocchia, che mi fanno male ogni volta che mi acquatto. Prendono anche un telo e me lo fanno passare davanti sulla pancia mentre, da dietro, lo fanno scorrere a destra e a sinistra, come fa l’orso Yoghi quando si asciuga la schiena con l’asciugamano dopo la doccia, o almeno credo di ricordare una immagine di questo tipo. 

E’ l’una e mezza. “Mi fai visitare?”

“Aspettiamo ancora un’ora. Dopo di che, ti faccio visitare e, se non siamo a buon punto, ti faccio mettere un po’ di ossitocina”

Fabio dorme. Gli hanno messo un materasso a terra, si è addormentato così. Io sono stanca, non è come l’avevo immaginato, ancora una volta nulla è come penso avrebbe dovuto essere. 

Sono le 2.30 del 12 novembre (eh sì, ormai siamo certi che l’11 novembre non nascerà) quando l’ostetrica chiama il medico per venirmi a visitare. Torna sconsolata: la signora della sala parto accanto ha avuto una complicanza in fase espulsiva, i medici sono tutti là,  il bambino nascerà con la ventosa. Fase espulsiva? Ma non dovevo arrivarci prima io?

Alessia inizia a visitarmi e dalla faccia capisco che non è contenta. 

“Sei di 3 cm”

Tre centimetri? Come è possibile? Mi avete rotto le acque, sono passate quattro ore, partivo da due centimetri e adesso le contrazioni le sento, non forti, ma le sento bene!

“Non ti preoccupare, adesso mettiamo l’ossitocina, poca poca, quel che basta a far partire delle belle contrazioni. Vedrai che a breve si sblocca tutto!”

La dottoressa mi visita e conferma l’indicazione. Mi sdraio sul lettino, mi collegano la flebo, vedo il farmaco cadere goccia a goccia. Fabio è sveglio, accanto a me.

E va bene, ossitocina, fammi vedere quello di cui sei capace.

Le contrazioni acquisiscono spessore e nitidezza. Io sono sempre loquace tra una e l’altra e, vuoi l’emozione, vuoi che tutte le volte che mi fanno un farmaco mi sembra che mi dia alla testa, comincio a raccontare del Cammino di Santiago, della nostra indecisione sul nome da dare al bambino, che per sbaglio mentre parlo ad un certo punto chiamo con il nome del cane (e su questa gaffe scoppio a ridere fino alle lacrime in quel modo incoercibile che mi succedeva solo da bambina quando a me e mio fratello capitava di pensare a qualcosa di estremamente comico, magari in un momento o in un luogo assolutamente non adatti, come una cerimonia funebre in chiesa). “Adesso basta, dai!” dice Fabio. Ma io rido come una matta. So che è fuori luogo, so che non ha senso, quasi mi soffoco. Sono isterica, penso.

Cosa c’è da ridere? Finalmente sento male. Le contrazioni, quelle forti. Quelle che devi fare il vocalizzo. “Aaaaaaaaaaaa” fino al climax ascendente e poi, su consiglio di Alessia, dei bei respironi nella fase discendente e “lasciare andare”. Lasciare andare è il segreto. Non opporre resistenza. “Lascia andare, lascia andare” mi dice.

Lascio andare più che posso, eccome. Le avevo spiegato qualche ora prima che ho sempre odiato la parte del travaglio, perché sei passiva, non puoi far niente, il dolore lo subisci. Non come la fase espulsiva, quando, per lo meno a me, viene fuori la rabbia e sai che tocca a te fare la tua parte e spingi e ti senti forte. “Non le capisco proprio le donne che, tra le due, si lamentano della fase espulsiva” avevo detto. “Certo, con Leonardo, senza aver fatto nemmeno qualche minuto di anestesia, ho sentito tutto: ricordo il bruciore, ricordo che ero stupita perché con Pietro non l’avevo avvertito, ancora lievemente sotto gli effetti della coda dell’epidurale, ma non c’è paragone tra travaglio e fase espulsiva!”

Passa il tempo. Alessia mi dice che, nel caso avvertissi qualcosa di diverso, che so, di dover spingere, glielo devo dire. Questa cosa mi scombussola.

“Ma come, potrei dover già sentire di farlo? E se non me ne accorgo?”

Da un lato mi sento ringalluzzita, ci siamo, mi dico. Potrei essere vicina alla dilatazione completa, potrei dover spingere tra poco. Da un lato comincio a concentrarmi su questa sensazione. La sento? Non la sento? Forse devo spingere? Forse è una puzzetta? E se la faccio che figura faccio? E poi riprendono le contrazioni, sempre più forti. Inizio ad essere insofferente anche tra una contrazione e la successiva, avverto dei tremori in tutto il corpo, batto i denti, sento freddo. Chiedo una coperta anche se so che fa caldo, molto caldo. Mi misurano la febbre, ma so di non averla. Perché tremo? Lo stress? La paura? Le gambe sembrano senza riposo, sbattono e ribattono sul fondo della poltrona. Cercano di tenermele ferme, provano a massaggiarmele, ad accarezzarmele, ma è solo l’ennesima epidermica fastidiosa sensazione. “Lasciatemi stare la gamba, non toccatemi!”

Fino a che, sì, forse ci siamo: “Guarda Alessia che adesso sì, mi sembra che potrei dover spingere, sento qualcosa, dietro, di diverso. Proprio a fine contrazione…”

Sono circa le 5.30 del mattino. Alessia fa per chiamare il medico e, ancora una volta, torna desolata. Stanno assistendo al parto della seconda donna, la seconda primipara indotta, quell’altra che avrebbe dovuto partorire dopo di me.

Inizia a visitarmi e io, tra una contrazione e l’altra, vengo presa dallo sconforto: le contrazioni sono davvero forti e il suo silenzio non lascia presagire nulla di buono.

“Se ci fossero buone notizie me le avrebbe già date!” dico a Fabio. E intanto inizio a piangere.

“Ascoltami” dice Alessia. “Siamo a circa 5 cm…”

Non la lascio terminare. “Cinque centimetri? Cinque centimetri? Non è possibile, sono passate altre tre ore dopo che abbiamo iniziato l’ossitocina, io ho dolore, sentivo di dover spingere, come è possibile che in tre ore io abbia preso solo due centimetri? E’ il terzo figlio e ho una velocità inferiore a quella di una donna che deve partorire il primo!”

Piango mentre lo dico e Alessia però è calma mentre mi risponde: “Ascoltami, io non so dirti, vista l’intensità attuale delle contrazioni, se adesso andrà tutto più veloce oppure no, se ci metterai altre cinque ore oppure una. Io ti propongo questo: portiamo su la velocità dell’infusione di ossitocina, ma facciamo l’epidurale, così che tu non soffra mentre il farmaco potenzia le contrazioni e possa arrivare all’espulsione più rapidamente e in maniera quasi indolore”

Fabio mi guarda, è perplesso. “Non so se sia una buona idea, tu avevi avuto problemi con l’epidurale con Pietro” 

“Lo so” rispondo (tra l’altro nelle ore precedenti avevo raccontato per filo e per segno tutta la vicenda). “Ma io così non posso andare avanti, non senza avere un’idea di quanto possa durare ancora. Quel che mi preoccupa di più però è che si fermi tutto, come con Pietro: tre ore di epidurale sono state tre ore nelle quali la dilatazione si è fermata. Il dolore era passato, io però avevo avuto delle complicanze pressorie e avevo avuto un problema alla pupilla e in più la dilatazione si era fermata, tanto che poi hanno dovuto interrompere l’infusione, rompere le acque e mettere ossitocina…”

“Non preoccuparti, non succederà questa volta! Perché tu hai già l’ossitocina in corso e adesso la potenziamo”

“Ok, ci sto. Facciamo l’epidurale. Subito però. Perché già sento che non ce la faccio più!”

“Subito. Chiamo l’anestesista”.

E l’anestesista arriva davvero subito. Incredibile. Fabio la conosce, è la più brava, tratta anche i neonati, ha le mani d’oro.

Mi fanno mettere seduta a bordo letto. Mi chiedono se io abbia un elastico per i capelli. Ce l’ho e so anche dove si trova.

“Tasca destra del pile viola” dico, indicando la felpa appesa allo schienale della sedia all’ingresso della sala parto, dove l’ho lasciata prima che mi rompessero le acque. Avevo memorizzato dove avessi messo l’elastico, avevo pensato potesse servire. Mi lego i capelli, mi mettono la cuffia in testa. 

Le contrazioni hanno un ritmo incalzante, non mi danno tregua. L’anestesista mi parla, credo, non ne sono certa, mi sembra tutto offuscato, mi dice che sa che ho delle ernie lombari, ma che non sono un problema. Lo so, me l’hanno spiegato anche quando ho fatto la visita anestesiologica prericovero durante la quale ho dato il mio consenso all’epidurale. Avevo detto che ero preoccupata perché con il primo parto avevo avuto problemi che avevano attribuito alle ernie, ma mi avevano spiegato che le ernie non c’entravano e che probabilmente era stato solo un caso. In quel momento ho un dejavu che ricaccio in fondo al cuore. Mentre la dottoressa mi palpa gli spazi intervertebrali parte una contrazione e, come dodici anni fa, mi sento chiedere se il dolore lo provo alla schiena o alla pancia e anche questa volta cerco di ricacciare la sensazione di dejavu. Mentre sono seduta però vedo che il battito del bambino cala fino a scemare del tutto. Anche qualche ora prima era successo e mi avevano tranquillizzato, avevano  riposizionato il sensore e tutto si era risolto. In quel momento la cosa non mi preoccupa, so che probabilmente si è solo spostato il sensore, non  mi interessa, non sono nemmeno preoccupata, tra poco il dolore sarà finito e non mi interessa nulla se non sento il battito di mio figlio. Mi chiedo se sia normale non sentirmi in colpa per questo. Ma la studentessa ostetrica non la pensa come me. Comincia ad armeggiare con la fascia sulla mia pancia. Mi viene voglia di morderle un braccio. Vorrei dirle di smetterla, non mi interessa il battito, lasciami stare. Ma lei vuole riprenderlo. Decidono di farmi sdraiare sul fianco sinistro, mi sistemano la fascia, il battito riprende normale. Nel frattempo l’anestesista mi raccomanda di stare ferma, che prepara il campo sterile. Mi fa portare le ginocchia al petto e mi ripete di stare ferma. Con la mano sinistra afferro la piantana della flebo. Guardo scorrere l’ossitocina ad una velocità di molto superiore a quella di qualche ora prima, quasi non sono più gocce quelle che scorrono, ma un flusso continuo. Chiudo gli occhi, il dolore è straziante. Quello che prima era un vocalizzo, che poi all’acme della contrazione si trasformava in un espirare profondo e ripetuto, comincia a tramutarsi in un urlo rauco. Cerco di continuare a mantenere le espirazioni profonde da metà contrazione in giù ma inizio a sentire che sto per perdere il controllo. Chiudo gli occhi e decido di non vedere più. La dottoressa mi avvisa che sta per procedere all’anestesia locale. Sento pungere. Poi mi avvisa che sta per posizionare il cateterino. Sento male. 

“Ahia”

“Dove?”

“Nella schiena!” Strano, penso, non ricordavo di aver sentito male. Una contrazione mi fa però subito riflettere che quello non è dolore vero, non è nulla. E comunque  tra poco sarà tutto finito.

“Ancora male? Dove?” 

“Nel muscolo, paravetebrale a destra!”

“Aspetta, e così?” 

E sento ancora dolore, ma questa volta a sinistra.

“Adesso fa male a sinistra!”

“E’ che non riesco a stare in centro. Ecco, sono dentro. Ora inietto il farmaco!”

Ma con sorpresa, anziché il brividino freddo che mi aspetto di sentire lungo la spina dorsale, avverto un dolore muscolare accompagnato ad una scossa elettrica fino al gluteo destro. 

“Ahia” ripeto. E mi sento anche in colpa, come se fossi la classica paziente che si lamenta di tutto. 

“Strano, è che tu hai la schiena un po’ conciata, con le ernie…”

Ecco, ci risiamo. Ancora la storia delle ernie. Le ernie non c’entrano, me l’hanno assicurato! Comincio ad intuire che qualcosa sta andando storto, anzi forse tutto sta andando storto. 

“Vedrai che la prossima contrazione la sentirai più breve!”

E invece arriva. E come arriva! Un dolore atroce. Urlo, immobile, in questa posizione innaturale nella quale mai e poi mai mi sarei messa spontaneamente, le ginocchia a schiacciarmi la pancia mentre il dolore arriva al suo massimo.

“Non è più breveeeeee!”

“Aspettiamo un attimo! Vedrai che la prossima la sentirai più lieve!”

Puntualmente arriva la successiva: “Non è più lieveeeee!”

“Senti, ti rifaccio la dose, torno fra dieci minuti e vedrai che andrà bene!”

Inietta di nuovo il farmaco, altra sensazione di dolore al muscolo della schiena, e se ne va. Io piango, gli occhi sempre chiusi.

“Non è dentro, non è dentro! Le ernie non c’entrano, non è dentro!”

L’ostetrica mi dice di avere fiducia, di aspettare come ha detto l’anestesista. Torna Fabio e gli spiego come posso, ma c’è poco da spiegare: le mie urla sono piuttosto eloquenti.

Continuo a ripetere che il catetere è mal posizionato e Fabio mi dice che hanno capito. Ma l’anestesista non c’è o forse penso che ci sia, che sia dietro di me e io continuo a ripeterlo: “E’ malposizionato, non è dentro!”

Finalmente torna la dottoressa.

“Come va?”

“Non è dentro, non è dentro!”

“Va bene, ci riprovo”

Propongo di mettermi seduta, perché sono convinta che da seduta avrà modo di trovare il punto giusto, ma mi dice che va bene così. Seguono altri tre tentativi, anestesia locale prima e posizionamento di catetere poi, ma capisco ogni volta che non ci siamo. Il dolore è sempre nel muscolo e la dottoressa comincia a sconfortarsi.

“E’ che hai anche la pelle che si sposta facilmente…!”

La pelle??? Io ormai non ragiono più. Il dolore è intollerabile. Mi sembra di vivere un’esperienza extracorporea,  poi mi rendo conto che è l’esatto opposto. La parola giusta sarebbe intracorporea: il resto del mondo non esiste. Sono sola. Gli occhi chiusi, ascolto il mio corpo, ne avverto ogni sensazione, l’arrivo della contrazione, la mia voce, l’urlo rauco, i respiri. Solo da un luogo molto molto lontano percepisco dei rumori, delle voci, forse qualcuno mi sta parlando, ma io sono chiusa  in un posto isolato, buio, da sola.

“Aiuto! Basta! Dio mio!” e ancora “Voglio la mamma!” E mentre lo dico penso che questa volta non è stato un urlo involontario, come accaduto in passato: ho voluto dirlo, ho scelto di dirlo, perché ho sperato che dicendolo sarebbe passato tutto. E invece no.

Tra una contrazione e l’altra ripeto come una litania “Signore Gesù, aiutami tu! Signore Gesù, aiutami tu!” Ma tutto prosegue inalterato. Apro per un istante gli occhi e incrocio quelli della studentessa, che mi guarda affranta.

“Non so che dire, mi dispiace” conclude l’anestesista.

A sentire queste parole mi riscuoto. Apro gli occhi, comincio a pensare. Devo trovare una soluzione. Se non la trovano loro, la troverò io. Per quali consensi ho firmato? Per l’epidurale ma anche per la spinale. Ma la spinale si fa come l’epidurale quindi se non si trova l’accesso per l’una, non si troverà neppure per l’altra! E se mi facessi addormentare? Mi faccio fare l’anestesia generale, sì, buona idea. No, un momento, se mi fanno la generale io non posso spingere e quindi mi devono fare il cesareo. E in quel momento avverto una sensazione diversa, a fine contrazione, il famoso peso che ti fa capire che forse è il momento di spingere.

“Devo spingere! Basta! Devo spingere! Visitami!”

“Ok, ok”

L’ostetrica mi fa finalmente cambiare posizione. Torno a pancia in su. Non so quanto tempo sia passato dal primo tentativo di epidurale, scommetto che nel frattempo però mi sono dilatata e che quindi adesso potrò spingere.

Vengo visitata ma il verdetto mi devasta: “Sei di 7 cm!”

Non è possibile. Piango, urlo, stringo la mano di Fabio con la mia che nel frattempo, alla faccia del tunnel carpale, a furia di stringere le coperte si è striata con diversi ematomi sotto pelle. “Ma io devo spingere!”

Alessia prende la parola e lo fa in modo autorevole: “Ascoltami bene, ascoltami, ho detto! Non importa, i tessuti sono morbidi. Sei di sette centimetri, ma non ci interessa. Devi spingere? E allora spingi!”

Improvvisamente vedo una via di fuga, una alternativa al semplice stare ad osservare e subire. Non mi sembra vero che io possa spingere. Non capisco come possa nascere un bambino con una dilatazione incompleta, ma al diavolo, mi hanno detto che posso spingere e quindi ora spingo!

Sono in posizione ginecologica, le contrazioni arrivano e io non vedo l’ora di spingere. Il dolore è devastante, ma io sto facendo qualcosa di utile, ci spingo sopra, lo neutralizzo. Fabio è accanto a me, piange, mi bacia sulla fronte e sulle guance. Lo guardo: “Ti amo”. Era tanto che non glielo dicevo. Lui non risponde e continua a piangere. 

Perdo la cognizione del tempo, non so per quanto spingo. Quando sento bruciare capisco che la testa sta uscendo. Alessia mi incalza a spingere e a non fare respironi durante la contrazione. Io non li faccio, ho una buona capacità di trattenere il fiato. Spingo per secondi interminabili. Fabio si spaventa: “Ok, però adesso respira! Sei viola, fermati, respira!”

Ma io non lo ascolto, ogni secondo che non spingo è un secondo perso. Mi innervosisco anche perché mentre Fabio mi dice di fermarmi, Alessia continua ad incitarmi. Io so che voglio spingere e spingo finché non mi gira la testa. 

Ad un certo punto l’ostetrica mi dice che ci sarà un momento in cui non dovrò per nessuna ragione spingere. E il momento arriva quando sento che la testa è per metà dentro e per metà fuori. Non ne sono certa, non posso saperlo, so che il bruciore è terribile e so che sarebbe così bello poter spingere ancora e farla finita. 

“Non spingere! Fermati, ti ho detto NON spingere! Fai dei respiri brevi e veloci!”

Io non capisco, ma eseguo: “Ffff, fff, fff, ff…f” 

Vedo che mi versano dell’acqua calda sopra, non so, non capisco, trafficano tra le mie gambe. 

“Adesso spingi! Spingi forte!”

E finalmente, dopo altre diverse spinte, sento uscire la testa.

Mi aspetto che il corpo venga fuori da sè. Mi ricordo che, dopo la testa, Pietro è uscito tutto insieme con una sola bella e lunga spinta. Ma evidentemente questa volta non deve andare così. Continuo a spingere ad ogni contrazione, ma il corpo non esce, non lo sento sgusciare fuori. 

“Ascoltami bene. Ora ti devi fidare di me. Abbassa le gambe, te le teniamo noi. Aspetta a spingere fino a che non te lo dico io!”

Mi sembra assurdo. Goffamente cerco di sfilare le gambe dai poggiapiedi della poltrona. Le ostetriche me le sollevano e poi le uniscono al centro, mantenendole comunque lievemente divaricate. Poi le abbassano, fin sotto al livello della seduta. La mia schiena è inarcata in senso opposto, la pancia tira verso il basso. 

“Alla prossima contrazione spingi!”

Spingo forte, forse per due, tre?, contrazioni ancora. Sento trafficare, maneggiare, ruotare. E finalmente sento uscire il corpo. 

Mi appoggiano il bambino sul petto, gli hanno messo un cappellino a righe rosa e azzurre (ma quando l’hanno fatto?). Io piango. Non provo lo stesso istantaneo senso di benessere e dolcezza di quando ho abbracciato il mio primo figlio. Non sento il profumo di bambino appena nato. Noto solo il cappellino e il fatto che pesa tanto. E che è pulito come se avesse già fatto un bagno. E che si muove tantissimo e sembra quasi che si punti per tirare su la testa. Ho paura che mi cada. Mi pianta le ginocchia in pancia, si dimena. Fabio fa qualche foto, continua a dire che è bellissimo. Le ostetriche sono alle prese con la mia placenta. E io, che sento ancora dolore, ho solo paura che il bambino mi cada giù dai lati del letto. Provo a tirare su la testa per guardarlo in faccia, ma è girato di lato, vedo solo un’orecchia, perfetta. Non ho mai visto una orecchia così perfetta. Ma non vedo il viso, vedo il labbro superiore e forse per un attimo la lingua, ma non vedo il mento, che in effetti poi scoprirò essere piccolo e sfuggente. Non dovrebbe essere così, mi dico. Dovrei essere più felice? Capisco finalmente che quello che “dovrebbe essere” e quello che “non dovrebbe essere” sono solo convenzioni.

So solo che è finita, anche questa volta.

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