23 giugno 2024

Sabato lavorativo: mi tocca il turno di dodici ore e poi domenica farò la notte. La mattina è stata piuttosto indolore, anche se concitata. Nè morti nè feriti, ma il solito ritmo indefesso, la corsa contro il tempo per finire il giro visite in reparto, senza mangiare, bere o fare pipì. Anche perché alle 13.30 si deve scappare in dialisi, situata 500 m più in là, a dare il cambio al collega che fa un turno complementare. Sono riuscita a prendere un tramezzino al Discount interno, una Fanta, dei biscotti, generi di conforto. Prendo consegne, saluto e mi siedo alla scrivania, divorando il mio pasto il più velocemente possibile, sperando di non essere interrotta. Giro visite in dialisi, qualche problema da risolvere, ma anche qua, per fortuna, oggi sembra tutto quieto. Recupero delle cartelle cliniche sulle quali lavorare. Esami da controllare, pazienti da convocare, mail alle quali rispondere. Tutto sommato, si sta rivelando una giornata piacevole. Qualche volta arrivano messaggi sulla chat familiare: oggi c’è l’ultimo torneo dell’anno, in casa. Fabio è andato a vedere Leo. Con lui ci sono anche lo zio e il nonno. Mi mandano foto, qualche video. Un goal mancato, una rovesciata. Mi spiace non essere là con loro.

Dopo un paio d’ore, inaspettatamente, mi suona il telefono. All’altro capo c’è il team manager della squadra di calcio di Leo. Avranno vinto. Mi vorrà chiedere se, come al solito in queste circostanze, Leo possa andare insieme alla squadra a mangiare un gelato. Probabilmente Fabio è andato a casa e hanno bisogno del mio permesso. 

“Pronto?”

“Ciao, scusami se ti disturbo…”

“Ma no, figurati, dimmi!”

“Eh, niente, volevamo sapere tutti quanti come sta Leo!”

Mi sento gelare. “In che senso? Io sono al lavoro, ma deduco che c’è qualcosa che forse non so…” Faccio anche la spiritosa, ma mi rendo conto che sto disperatamente cercando di prepararmi al peggio.

“Ah, caspita, scusa, quindi tu non sai niente!?”

Mentirei se dicessi che ho pensato a qualcosa di grave, di veramente grave. Ci ho pensato, sì, nelle ore successive. Quando ormai le cose avevano preso il loro corso. Ho ripensato giorni e giorni a questa telefonata, a cosa sarebbe stato se mi avessero detto che mio figlio durante la partita era caduto a terra, inerte, un fantoccio, un arresto cardiaco, una morte rapida e improvvisa. Tentativi inutili di rianimarlo, portato via sull’ambulanza. I compagni, “tutti quanti” che chiedevano come fosse andata a finire. 

E invece no.

In un istante capisco che la supereremo, di qualunque cosa si tratti.

“No, non so niente. Per piacere, dimmi cosa è successo.”

“Ma no, guarda, mi spiace, c’era tuo marito, probabilmente non voleva che ti preoccupassi. Leo è caduto durante un contrasto e ha messo giù male la mano. Solo che poi aveva molto dolore e quindi l’hanno portato in ospedale”

“Capisco”. Mi si stringe il cuore. “Ti ricordi quale braccio?” 

“Il sinistro”

Un déjà-vu fa prepotentemente capolino dentro di me. Rivivo la medesima sensazione di sette anni fa, quando mi avevano chiamato per dirmi che forse era il caso di andare a prendere Leo all’asilo, perché era caduto dallo scivolo e “aveva messo giù male la mano”. E io, conscia che saremmo partiti la settimana dopo per il camp estivo di tennis, cinicamente ho chiesto di quale braccio si trattasse. Mi ero sentita istantaneamente in colpa per quella domanda. Come se un braccio fosse meglio dell’altro. Come se la cosa più importante non fosse se il bambino stesse male, quanto se quel fatto potesse impattare in maniera significativa sugli eventi futuri, la pianificazione familiare, le vacanze estive. “Il sinistro” mi avevano detto anche quella volta. E quella volta si era fratturato l’omero. Aveva dovuto subire un intervento chirurgico, portare il gesso per un mese e dopo sei mesi essere operato nuovamente per togliere il chiodo. Al camp estivo di tennis ci era venuto lo stesso. Aveva imparato a giocare a tennis. E aveva giocato il rovescio a una mano, la destra.

Questa volta non mi sento insensibile o sciocca. Mi sento pratica. 

“Il sinistro. Va bene. Senti, contatto mio marito e ti faccio sapere. Intanto grazie per il pensiero”.

Metto giù. E nonostante la mia tranquillità esteriore sento che qualcosa si sta incrinando dentro. E se si fosse rotto l’omero di nuovo? Magari nello stesso punto? Quel braccio è rimasto deformato, non è più come prima. E se si fosse fratturato di nuovo in quel punto? Si dovrà intervenire di nuovo chirurgicamente? Sarà possibile farlo?

Chiamo Fabio. Uno, due, tre, quattro, cinque squilli. Niente. Richiamo. Non risponde. 

Comincia a battermi forte il cuore. Chiamo Pietro. Dopo qualche squillo, finalmente risponde.

“Pietro!”

“Sì?”

“Dove sei?”

“A casa”

“E papà?”

“Papà è fuori con Leo…”

“Fuori dove?”

“Eh, fuori!”

“Pietro, ascoltami bene: tu sai qualcosa? Mi dici cosa è successo?”

“Eh, sì qualcosa so… però ehm, non posso… scusa, ciao.”

E mi mette giù. Capisco che non è colpa sua. Che probabilmente gli è stato detto di fare così. Se chiama la mamma prendi tempo. Non dirle niente, che poi si preoccupa. Peccato che la mamma sia già preoccupata, perché qualcuno le ha detto qualcosa. E peccato che ora sia molto preoccupata, perché non capisce cosa sia successo veramente. Non è colpa sua. Non è colpa sua.

Richiamo Fabio. Suona suona suona. E non risponde.

Comincio a piangere. Mi chiudo nello studio per non farmi vedere dagli infermieri. E maledico la mia famiglia che ogni volta fa la scelta sbagliata. Milioni di volte ho detto a Fabio che se anche mi scrive “il cane ha vomitato”, “il bambino ha la diarrea”, “Leo ha l’orticaria”, “Pietro ha la febbre” quando sono di turno non posso farci niente! Lui me lo scrive, forse in cerca di supporto morale, ma il dato di fatto è che se il cane ha vomitato, non deve cenare, se il bambino ha la diarrea non bisogna dargli il latte della buonanotte, se Leo ha l’orticaria puoi provare con l’antistaminico e se Pietro ha la febbre può prendere la Tachipirina. In sostanza: io dal mio posto di lavoro non posso fare nulla e, viceversa, se tu mi dici queste cose rendi solamente più difficile la mia permanenza lontano da casa e mi fai sentire inopportunamente in colpa quando non ho alcun mezzo per aiutarti.

Ma questa volta no. Questa volta Fabio ha deciso di tutelarmi. Da un lato sono commossa. Dall’altro sono incazzata nera. Non è colpa sua, mi dico. Se il team manager non mi avesse chiamato, non avrei saputo nulla. Sarei arrivata a casa stasera e avrei scoperto tutto. Ma non è andata così. E ora, se qualcuno non mi dice subito cosa è successo rischio di impazzire. 

Finalmente mi richiama. 

“Ma dove sei? Cosa è successo?

“Scusa ero in un punto che non prendeva bene”

“Non dire cazzate, so che sei in ospedale, dimmi cosa è successo!

“Ma come, ma chi te l’ha detto?”

“Mi ha chiamato il team manager”

“Quel cretino, ma come si è permesso?”

“Beh, non ha fatto nulla di male, non poteva immaginare che io fossi all’oscuro di tutto! Mi ha detto che Leo è caduto e ha messo giù male il braccio…

“Eh sì, stiamo cercando di capire…”

“Adesso basta! Dimmi se è rotto!”

“Sì”

“Ma nello stesso punto dell’altra volta?”

“Eh, stiamo cercando di capire…”

In verità non so perché mi abbia risposto così: una volta a casa ho scoperto che Fabio non mi aveva risposto prima perché ho chiamato nel bel mezzo della manovra di riduzione manuale della frattura, che già si sapeva essere localizzata alla parte finale del radio e dell’ulna. Si è spaccato due ossa insieme. E’ stato proposto questo tentativo di riduzione, ma ci sarebbe stato da attendere l’arrivo dell’anestesista, impegnato su un altro bambino. Hanno poi deciso di procedere senza anestesia, Dio solo sa perché. 

Quando mi richiama stanno tornando in auto verso casa. Sento la voce di Leo, mi dice che ha sofferto tantissimo e che il papà continua a dire che è colpa del calcio, del torneo, delle cinque partite di fila giocate nell’afa e nell’umido di quel sabato dal cielo coperto, senza sostituzioni, senza tutele. Il mister mi ha poi detto che Leo non ha voluto uscire quando gliel’ha proposto. Perché voleva vincere e sapeva di essere fondamentale. Lui stesso mi ha poi detto che quel contrasto è avvenuto perché voleva impedire all’attaccante avversario di tirare da fuori area, giacché proprio in quel modo avevano perso il torneo precedente, prendendo un goal all’ultimo minuto  del tempo di recupero. Io so solo che non è colpa del calcio, del tempo o del mister. Tra una partita e l’altra ci son state pause, hanno anche pranzato. E’ Leo che dà tutto se stesso. Che non si risparmia. Un leone in campo, come dicono tutti quelli che lo vedono giocare. “Se tutti avessero la metà della voglia che esprime Leo in campo!” li sento dire. Lui si dà anima e corpo. E fa niente che non sia la finale dei mondiali: lui è lì per giocare e vincere. E torna a casa sempre martoriato, con i segni dei tacchetti sulle gambe, la terra nei capelli, i graffi sulle braccia, i lividi sotto i parastinchi. Lui è il mio guerriero. 

Parto per casa non appena se ne va l’ultimo paziente. Chiamo mia mamma durante il tragitto: i ragazzi dovrebbero partire per il mare insieme ai nonni di lì a tre giorni. Temo la reazione di mia mamma. Da un lato, non voglio darle un dolore. Dall’altro ho paura che non se la senta di prendere sotto la sua responsabilità il nipote fresco di frattura. Temo la sua ansia, negli ultimi anni molto più manifesta che in passato, specie per problematiche di nessun impatto pratico o di scarsa importanza. E invece, trattandosi di un reale problema, da affrontare nel migliore dei modi, mia mamma reagisce con fermezza e serenità, comportandosi come l’ho sempre ricordata, coraggiosa e intraprendente, supportiva e rassicurante. Mi ero già preparata a organizzarmi sulle cose da fare insieme a Leo a casa, qualora la nonna avesse deciso di non portarlo al mare. Saremmo andati al cinema, magari a teatro. Avremmo fatto delle gite. Magari l’avrei portato in piscina. Ma mia mamma non ha avuto dubbi: viene con noi. Lo coccolo io. Se gli procuri la guaina impermeabile per il braccio, gli facciamo fare tutto, dai giri in barca a pescare al bagno con le pinne. 

Arrivo a casa più serena. Trovo Leo in mutande sul divano, abbracciato a suo padre. Santiago un po’ interdetto, mi indica il gesso e mi dice: “Otto!” (rotto).

Abbraccio anche io Leo, che si mette a piangere.

“Non è possibile che io sia così sfigato! Sempre io! Sempre io! Adesso che dobbiamo andare al mare! E come farò per il camp estivo del tennis? Quaranta giorni col gesso! E devo fare una lastra tra dieci giorni! Non posso andare al  mare!”

Lo rassicuro. Gli dico che i nonni sanno già tutto e che al mare lui ci va. E la lastra la farà al mare. Gli chiedo se ha dolore e mi dice che ne ha tanto. E che non posso nemmeno immaginare il dolore che ha provato durante la manovra di riduzione. Guardo mio marito che sfugge i miei occhi: credo sappia di aver sbagliato a non aspettare l’anestesista. Immagino l’abbia fatto per poter tornare a casa il prima possibile e per avere la certezza rapida che non sarebbe stato necessario alcun tipo di intervento chirurgico. Mi dice che Leo urlava come me durante il parto. Che durante la manovra si sentivano le ossa “scricchiolare come quelle di un pollo quando lo triti”. Mi si accappona la pelle. Non voglio recriminare niente a nessuno, a cosa servirebbe? Abbraccio Leo forte forte. 

“E se poi la lastra non va bene?”

“Ti vengo a prendere al mare e ti riporto a casa”

“E se le ossa sono andate fuori posto? Non mi dovranno rifare quella cosa, vero??? Io non me la farò fare mai più!”

“No amore, non te la faranno mai più! Mi dispiace tanto, tantissimo!”

“Lo so, mamma. E’… è che tu… tu non c’eri!”

Mi sento trafiggere il cuore da una spada. Io non c’ero. Io non ero lì. Non ho nulla da replicare. Il dato di fatto è questo. E non posso nemmeno dire che se ci fossi stata, stai tranquillo che avrei aspettato l’anestesista anche per tutta la notte. Non posso dire niente.  Lo abbraccio e gli do una Tachipirina. 

“Coraggio amore mio! Il dolore entro 48 ore passerà. E vedrai che riuscirai a fare tutto ugualmente!”

Vado a letto e mi sento fortunata.

Mio figlio non è morto su un campo da calcio mentre non c’ero.

Si è rotto un braccio e terrà il gesso per quaranta giorni.

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