Del mio dubbio delle 5.00 di mattina di quel 28 ottobre già sapete: tornare in vasca oppure no? L’idea però di bagnarmi di nuovo non è molto allettante. Decido di sdraiarmi ancora un po’ a letto, questa volta con un cronometro vero (il mio telefono non ce l’ha!) e di monitorare effettivamente l’andazzo delle contrazioni. In effetti sono di un minuto, sono “fortine” e si verificano circa ogni tre minuti. Dopo un po’ chiedo a Fabio cosa fare. All’inizio ci diciamo che è meglio aspettare le 8.00, così iniziamo un turno nuovo (con medico e ostetrica), senza interruzioni. Io però gelo di freddo, così comincio a vestirmi. Poi mi faccio un the e mangio qualche biscotto. E lì mi rendo conto che mi devo fermare al momento delle contrazioni, alzare in piedi e gemere un po’. Fabio prende tempo, carica la macchina. Alla fine usciamo di casa e mi devo fermare due volte prima di arrivare alla macchina e poi ad ogni semaforo (praticamente anche i verdi, aspettando pazientemente i rossi) per smaltire la contrazione. Anche nel parcheggio del PS mi fermo, ma lì già faccio i miei vocalizzi (aaaAAAaaa) e (incredibile!) sentendomi da dentro, viene fuori un’ostetrica a prendermi (la stessa che avevo trovato al controllo delle perdite qualche giorno prima).
Raccolgono i dati, poi cominciano a spulciare la mia documentazione. Come mai tutte queste glicemie? Ma la curva non l’ha fatta? Dov’è il dosaggio dell’HIV? La tiroide perché? Il tampone non c’è? Per fortuna c’era Fabio a rispondere. Io mi accingo ad essere visitata.
In stanza c’è anche una mia compagna di corso che fa ginecologia, ma lei non mi visita, ancora un po’ e non mi riconosce, forse le facevo semplicemente impressione.
Mi visita l’ostetrica. E io prego: “Fa’ che sia almeno un po’ dilatata, fa’ che sia almeno un po’ dilatata!”
E questa comincia: “Collo appianato, pervio, rammollato…”
E io: “Eddai…”
E lei: “3 cm!”
Ero contentissima. Ok, travaglio iniziato. Il medico mi dice che mi ricovera e mi porta in sala parto. In quella l’ostetrica mi guarda il liquido: “Citrino, venite a vedere!” Ho pensato, ma cazzo, e ti pareva! Poi: “Ah, no, è limpido…” Ma si potrà mai star tranquilli?
Mentre vado in sala parto, altre contrazioni col medico che spiega agli studenti: “Ecco, vedete, siamo in tipico travaglio…” Mi veniva quasi da ridere. Chiedo se per caso c’è la mia amica Costanza, compagna di liceo, che fa l’ostetrica e che l’altra volta era in maternità e mi aveva aiutato nell’allattamento consigliandomi di tenere Pietro attaccato tutta notte nel letto per favorire la montata. Il caso vuole che fosse lì a finire il turno.
Entro in sala parto, la stessa di Pietro, e mi cambio. In realtà sono un po’ a disagio, a mostrarmi sofferente con lei. Le racconto com’è cominciato tutto. Lei mi propone la palla, io so già che seduta le contrazioni non le tollero, però che tra una e l’altra la palla è proprio comoda! Accetto.
Ormai i miei vocalizzi sono quelli che ricordavo. Lei mi conferma che è meglio vocalizzare che fare “Shh-shh” per non iperventilare. E poi mi rendo conto che usa una frase fatta che ripete per tutto il tempo: “Lascia che trovi la sua strada. Indirizza la voce verso il dolore”. Alla decima volta, volevo dirle che non capivo cosa intendesse e di piantarla.
Mi monitorava spessissimo il battito. Era sempre sui 160 al minuto. Ero contenta anche se ho cominciato a dire che non ce la facevo più. Poco prima delle 8.00 ho avuto dei conati di vomito e (stranamente perché l’altra volta alla fine avevo resistito) ho vomitato il mio buon the del mattino in un sacchettino (e grazie a Dio che la sera prima ho rifiutato la gentile offerta di Fabio che aveva cucinato alici in padella con salmone!).
A questo punto è cominciato un dolore tipo sciatalgia a destra, che più tardi poi è passato.
Alle 8.00 lei, un po’ imbarazzata, mi dice che non sa che fare. Mi spavento un po’. Poi si spiega meglio: “Io starei smontando…vuoi che resti con te?” Mi ha fatto tenerezza. Le ho detto figurati, vai a casa, sei stata gentilissima.
E così, nuovo turno, nuova ostetrica. Simona, bionda. Strano come la prima cosa che ho sentito nelle ostetriche (tutte, anche quelle di Pietro) era se fossero fumatrici. Arrivano e portano un lontano odore di sigaretta, che stranamente non mi nausea, ma mi fa inquadrare il tipo e in qualche modo mi riconduce alla realtà. Guardo la mano, sposata. Ovviamente senza figli (qualcuna di voi ha avuto ostetriche che avessero avuto figli?). Ci presentiamo.
Io sono ancora sulla palla, poi mi alzo, poi mi siedo. Il dolore è già insopportabile, mi sembra passata una vita.
“Dove ti fa male?” Il dolore è come lo ricordavo, in basso in basso, non prende tutta la pancia. E’ trafittivo ma poi diventa urente, si irradia agli inguini. La cosa positiva è che mi sembra che, a differenza dell’altra volta, non finisca con le stilettate alle cosce, che mi facevano urlare al termine della contrazione. Lei mi massaggia la schiena e mi chiede se mi faccia male, ma io dietro non sento niente. Colgo anche qui la frase fatta: “Non aver paura del tuo dolore!” Che mi ripeterà per tutto il parto. Da essere appoggiata a Fabio, in piedi, mi consiglia di appoggiarmi al lettino. Prova a farmi mettere carponi sul lettino con la faccia appoggiata su un pouf. Ma la faccia mi sprofonda dentro, le braccia non mi tengono e io non ci voglio stare.
Le chiedo quando pensa di visitarmi e mi rendo conto che non sono nemmeno le 9.00 (con Pietro la visita era ogni tre ore). Lei mi dice che, siccome ero in travaglio, me la farà alle 9.00, dopo due ore. Attendo con ansia il momento. Con molta fatica, mi metto sul lettino e prego che la dilatazione sia almeno di 7 cm. Continuo a ripetermi: “Si va più veloci il secondo parto, si va più veloci il secondo parto…”
Mi visita: 5 cm! Mi viene da piangere. Un cm all’ora, come le primipare. Come se mancassero almeno altre cinque ore prima della fase espulsiva.
Lei mi guarda e dice: “Chiamo il medico e ti faccio rompere le acque!” E’ stata brava, perché l’altra volta hanno aspettato una vita a farlo e, secondo me, abbiamo perso tanto tempo! Arriva il medico, questa volta compagna di corso di mio marito (e due!). Mi rompe il sacco. E mi dice che adesso andrà tutto meglio. Chiedo: “Ma il dolore sarà più forte?” E l’ostetrica: “Eh, dai, più forte di così?” (il che tra l’altro poteva anche suonare come: “Allora, o questo è il massimo del dolore che senti, oppure sei esagerata!”). Non mi convince per niente.
E infatti cambia tutto. Rimango sdraiata sul lettino, lei mi consiglia sul fianco e io scelgo il sinistro. Le contrazioni diventano insopportabili. Tra una e l’altra, un costante stato di dolore diffuso, anche ai muscoli della schiena. Io tengo le mani di Fabio (che a differenza dell’altra volta mi sembra di aver bisogno di toccare continuamente), le stringo forte, poi estendo le braccia e grido: “Aiutami, Fabio! Tu mi devi aiutare!”
Poverino, chissà anche lui cosa deve aver provato. Guardo la Madonnina appesa e prego che passi in fretta. Quando esce l’ostetrica dico: “E’ come morire. E’ come vedere la morte. Fabio, è cambiato tutto! Fabio non ce la farò!”
L’ostetrica e lui continuano a dirmi: “Dai che ora sei in pausa, l’utero non è contratto!”
E io: “No ragazzi, voi non potete capire, ho male anche in pausa, non passa più, non ce la faccio!”
E lei, instancabile: “Non aver paura del tuo dolore”. Ma che paura? Non ho paura! Non ce la faccio più, non ce la farò mai!
Poi, piano piano, a fine contrazione, sento qualcosa di diverso. Un senso davvero come di peso, che si sposta dietro, verso il retto. Non è propriamente dolore. Non è descrivibile. E qui cominciano le incomprensioni.
“Ti fa male dietro?”
“Sì, ma no.”
“Ma davanti?”
“Davanti sempre.”
“Ma si è spostato dietro?”
“Non si è spostato, è un’altra cosa, davanti fa sempre male!”
“Ma sempre così in basso?”
“Sì. Insomma, non capisco!”
Fabio mi dice: “Mettiti in piedi, sfrutta la gravità.” Anche lei è d’accordo. Ma io non voglio. Con Pietro mettersi in piedi era stato un disastro, mi girava la testa e le gambe non mi tenevano. Alla fine mi convincono. Drammatiche le contrazioni sopraggiunte a metà del cambio posizione. Poi, finalmente in piedi, mi attacco a Fabio. Persiste e peggiora il senso di peso rettale, ma davanti ho ancora male. Il dolore mi toglie il fiato. Durante la contrazione mi attacco alle spalle di Fabio e sto zitta, non respiro nemmeno.
“Ma perché non urli? Cosa succede?”. Non riesco ad emettere un suono.
Alla fine della contrazione, inspiegabilmente, istintivamente ho come un conato, una necessità, do una piccola spinta fondamentalmente involontaria, come se avessi un attacco di diarrea. Mi esce un grugnito. Sgocciolo sul pavimento.
“Vedo che ti viene da spingere, brava! Piano però!” Piano? E mi rendo conto che non sappiamo nemmeno se sono dilatata a sufficienza e mi vien paura. Posso spingere o no? Vado avanti così per un tempo indefinibile, in silenzio, col grugnito finale e la spinta. Arriva, lo sento.
“Dov’è?!?” Grido.
L’ostetrica mi dice: “Alla prossima spinta sali sul lettino che ti visito”.
Io non riesco a muovere un passo. Di spinte forse ne passano due, ma il tono era stato perentorio. Fabio sostiene che io non mi sono accorta, ma il battito era sceso a 80 al minuto: il bambino era pronto. A fatica mi giro sul lettino. E alla spinta successiva comincio a sentire bruciare. Non mi visita nemmeno. “Vedo i capelli!” Dice.
Qualcosa me la sono persa di sicuro in quei minuti, perché la stanza è piena di gente.
E’ tornata la dottoressa, magicamente chiamata da non so chi. Io chiedo a Fabio conferma dei capelli. E capisco che allora, cavolo, ci siamo, posso spingere! E comincio. E mi rendo conto in un istante che l’altra volta, probabilmente, nonostante avessi su l’ossitocina e l’epidurale fosse sospesa da alcune ore, ero parzialmente anestetizzata. Sì, perché avverto un bruciore intenso, fortissimo, indescrivibile. Brucia dentro, brucia fuori, brucia davanti, brucia dietro. Ti senti lacerare, ti sembra di avere alcool puro su una ferita aperta. Ti sembra che ti stiano lentamente tagliuzzando.
“Bruciaaaaaaa!” Grido. E mi dicono che è normale, guardandomi strane, come a chiedersi come mai non lo sapessi già.
Io spingo e spingo. E la testa esce. “Alla prossima, spingi ed esce il corpo!” E la prossima sembra metterci un’eternità. E forse ho anche spinto prima della contrazione.
In ogni caso, Leonardo sguscia fuori. Un bambinone (non avevamo dubbi!). Fabio è commosso, io ripeto le stesse innate parole: “Il mio amore, il mio bambino!”
Me lo mettono sulla pancia. Emozione diversa. Lo scruto. E’ bello, sembra sano, gli occhi non sono spaventati come quelli di Pietro, sono meno a mandorla, ha le guance paffute, i capelli si fondono con la peluria delle guance e delle sopracciglia, le spalle sono pelosine. Non ha quell’odore forte di amnios, ma è caldo e morbido e non piange in braccio a me!
Il dolore, a sorpresa, va avanti. Con Pietro non avevo sentito più nulla, nonostante l’episiotomia. Qui invece continuo a sentire come un corpo estraneo dentro. Mi pulsa davanti, mi pulsa di dietro.
“Ho male ancora!”
“Dove?” Mi toccano la pancia. Io spiego che mi fa male giù, mi dicono che è normale. Poi, per favorire l’uscita della placenta, mi cateterizzano. Anche questo fa male, non me lo ricordavo. Piano piano la placenta esce, aiutata dalle mie spinte.
“Non ti cuciamo, anzi aspetta che chiedo consiglio”. Entra un’ostetrica anziana.
“Sì, un punticino interno sì, che s’è lacerata dove era stata tagliata l’altra volta.”
Entra il medico. Questa volta mio compagno di università (e tre!). Io mi copro la faccia, mi vergogno, spero stupidamente che non si accorga che sono io (chiaramente sapeva che ero in sala parto chissà da quanto tempo). Mi mette i punti. Ma sono tanti. Almeno sei o sette dentro e poi uno o due fuori (mi fa l’anestesia due volte!).
Vanno via tutti e parte il giro messaggini: “Alle 10.38 è nato Leonardo. E’ già qui che ciuccia!”.
10.38? Praticamente in meno di un’ora e mezza dalla rottura delle acque ho fatto 5 cm e l’espulsione!
Mi chiedono se voglio stare un po’ tranquilla, ma io lo voglio subito tra le braccia e lui si attacca bene subito. Arriva dentro mia suocera con Pietro.
“Guarda, amore, il fratellino!” Lui lo guarda, lo bacia sulla guancia. E’ emozionato.
Portiamo Leo nel cullino mentre l’ostetrica mi controlla le perdite. Poi Pietro mi si avvicina e vuol salire sul letto. Lo faccio salire, mi abbraccia e mette il dito in bocca (il suo segno della coccola e della nanna). Arriva un amico, uno zio e finalmente anche i miei genitori. Passano le due ore canoniche. Io bevo l’impossibile.
Finalmente mi trasportano di sopra, dove trovo anche due mie infermiere ad aspettarmi per salutarmi. Questa volta niente attacchi di pianto. Questa volta solo gioia. Vado in bagno con mia mamma. Torno a letto. Leo l’hanno portato al nido per bagnetto. Io sono felice.