31 gennaio 2025

Il terzo Natale di Santiago è volato in un soffio. Al mattino mi sono persa l’attimo in cui ha svoltato l’angolo per entrare in sala e quindi il momento della scoperta dei doni sotto l’albero: per una volta, ero ancora a letto e mio marito è andato a svegliarlo. Ovviamente solo il giorno di Natale poteva stare ancora dormendo alle 8.00! Come sempre l’emozione è stata tanta, sua e nostra. Come sempre gran casino, Frank Sinatra che canta brani natalizi e carte dappertutto. “Quetto è mio, mamma???” Un gran disordine ovunque. La colazione in piedi, la corsa per andare a messa. Al ritorno, la cernita dei giochi in scatola da portare al pranzo con i parenti e poi tutti fuori casa di nuovo.

Come negli ultimi anni abbiamo affittato una sala multifunzionale perché le famiglie si sono allargate parecchio e a casa non ci si sta più. Ciascuno porta qualcosa, si mangia, si beve e si gioca. Confesso che con il passare del tempo, sarò invecchiata io, non è più la stessa cosa. Le ore passano rapide, il tempo di finire il panettone e già è ora di tornare a casa. Sono le 18.00 ma mi sembra passato così poco! Quando ero giovane questi pranzi parevano eterni: giocavamo agli indovinelli, cantavamo canzoni, facevamo imitazioni. Ora mi sembra tutto finto, il simulacro di quel che fu. Ma poi guardo i ragazzi con i cugini grandi, Santiago e il cuginetto più piccolo di lui e mi accorgo che fa parte del gioco della vita: loro tornano a casa entusiasti, gratificati e sereni. E questo è quello che conta. 

Da Santo Stefano in poi le cose si sono complicate, Santiago e Leo hanno continuato a tossire (avevano iniziato prima di Natale). Leo, in particolare, ci omaggia di un 39.5 di febbre, prende una Tachipirina e decide comunque di venire a giocare a tennis con noi. Poi gli passa tutto, ma d’altronde, si sa, lui è un guerriero. Subito dopo, in assenza di altri sintomi, ecco Pietro ricoprirsi di un esantema orticarioide mostruoso.

“Avrò mangiato qualcosa che mi ha fatto reazione”, dice.

 Sarà la manifestazione atopica di una qualche affezione virale, mi dico io. E trascorriamo così il Capodanno da amici, il povero Pietro ricoperto di chiazze pruriginose contro le quali l’antistaminico non può nulla. Dal 31 dicembre riprendo a lavorare, uno dei peggiori rientri che io ricordi: tre turni di 12 ore in 7 giorni, tutti molto impegnativi. Pietro che, anziché migliorare, continua a ricoprirsi di chiazze che, di giorno in giorno, assumono caratteristiche diverse. Una vocina interna mi fa tremare: l’incubo della vasculite che l’ha colpito all’età di due anni è sempre in agguato. Cerco di convincermi che non si tratti di questo, ma anche il cortisone, somministrato per disperazione, sembra non funzionare.

Una sera Fabio propone di vedere “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Riusciamo a mettere a letto presto SG e, come ai vecchi tempi, ci sediamo in riga sul divano tutti e quattro. Leo regge fino a metà e poi soccombe. Pietro resiste fino alla fine. Sui titoli di coda scatta in piedi e urla: “Adesso però basta! Non ce la faccio più!” Si sfila i pantaloni e ci mostra le gambe, che nel corso delle ore avevano assunto un colorito pericolosamente cianotico. Mi spavento, mi arrabbio, scrivo a due ex compagni di studi, dermatologi, chiedendo se la sua vasculite possa avere un ruolo nella manifestazione cutanea in corso. Mi tranquillizzano, ma mi dicono di portarlo in ospedale per degli esami e di farlo vedere a qualcuno per sicurezza. Il giorno dopo, nel bel mezzo di una giornata lavorativa concitatissima, riesco a farlo visitare da una allergologa (che non ha saputo dare un contributo utile non sapendo che pesci pigliare) e a fargli fare degli esami del sangue. Sostituiamo l’antistaminico che stavamo usando con quello consigliato dal mio amico, di nuova generazione. E avviene il miracolo. Nell’arco di poche ore il quadro si mitiga e il giorno dopo non c’è più nulla.

“Te l’avevo detto!” Dice mio marito, che fin dall’inizio, come sempre, minimizzava.

Ma io l’ho vista bene la sua faccia quando, dopo sette giorni di terapie, Pietro ci ha mostrato le gambe cianotiche. Era la faccia di uno che qualche dubbio lo covava. Di certo non sapremo mai che cosa abbia veramente avuto Pietro. Nè ora, nè 14 anni fa. Gli esami del sangue sono pressoché normali e lui sta bene. E questo è ciò che conta.

Per quanto riguarda Santiago, dopo la febbre pre-natalizia ha continuato a tossire imperterrito con andamento altalenante. Attualmente io ho preso l’antibiotico al posto suo per via di una bronchite catarrale. Ma se vado a leggere i miei resoconti degli anni passati mi rendo conto che, incrociando le dita, stiamo andando molto meglio di quando erano all’asilo Pietro e Leo. 

Ho finalmente avuto il colloquio con la maestra di Santiago. Quel giorno ero piuttosto disperata per via di alcune considerazioni che mi frullavano in testa ormai da settimane. Perché parla ancora così male? Perché inverte le sillabe? Perché se gli parlo non mi guarda negli occhi? Perché non mangia mai a tavola composto? Perché non riesco a metterlo a letto in meno di mezz’ora? Perché invece Fabio lo lascia lì con un libro e se ne va e lui dorme da solo? Perché, se lo vado a prendere a scuola, mi corre incontro a braccia aperte ma se gli chiedo se è contento di vedermi si ritira a riccio, si siede per terra con le mani sugli occhi e non vuole più vestirsi e nemmeno uscire dalla classe? Perché, dopo che ha avuto la febbre e che si è pisciato a letto per sbaglio, non riesco più a togliergli il pannolino di notte? Perché, anche se capisce tutto, fa finta di non sentire? Perché spinge la nonna fuori di casa quando arrivo (il perché lo so, ma deve proprio farlo?) cosicché poi lei piange con me dicendo che non le vuole bene oppure che l’ho educato male? 

Insomma, la povera maestra aveva preparato la sua bella scheda valutativa e io, seduta sulla mini seggiolina dell’aula, pensando di essere dallo psicanalista, l’ho investita di un fiume di parole. Facevo le domande, mi davo le risposte. Tutto da sola. Analizzavo il suo comportamento e, da sola, me ne accusavo.

“Perché sono vecchia. Perché non ne ho la forza. Se non vuol mangiare a tavola pazienza, non ce la faccio a tenerlo lì. Lo accontentiamo su tutto, lo so. Gli dico che gli leggo un libro, ma poi gliene leggo cinque. Metto a posto io i giochi al posto suo perché se aspetto lui si fa mezzanotte. Non mangia quel che c’è in tavola e mio marito gli dà la frutta. Io protesto, ma poi mollo il colpo. Non si riesce a parlare a tavola perché lui deve urlare sopra per impedircelo. Quindi se mi chiede il telefono glielo do, così si allontana un attimo e possiamo finire il discorso. I ragazzi sono grandi, non riusciamo mai a parlare, le nostre cene durano dieci minuti a dir tanto, il cane abbaia che vuol qualcosa, Santiago urla, l’acqua si rovescia, le posate cadono. Casa mia è un inferno!”

Mi ascolta, interviene ogni tanto. Vorrebbe mostrarmi la scheda ma non gliene do il tempo.

Poi mi dice una cosa che so perfettamente essere vera. L’ho sempre saputa. Ma sentirsela dire risulta tranquillizzante. 

“Santiago sembra grande, ma è piccolo. Santiago ha 3 anni. Parla poco perché ha i suoi tempi. Ha fatto grossi miglioramenti, ama esprimersi con il corpo e la mimica del viso, ma ha iniziato anche a verbalizzare e lo sa fare bene. Vive in un ambiente caotico, ha sempre davanti i fratelli maggiori, concitati, rumorosi, maneschi, giocosi. Il cane. Voi sempre di corsa. Lui si adegua. Si scongela le focaccine e se le cucina nel microonde perché lo vede fare. Urla perché sente urlare. Cerca attenzioni perché si deve far largo tra i fratelli. Se gli chiedi se è contento lui magari non capisce: devi dirgli semplicemente che noti che ha un bel sorriso, vedrai che questo lo capisce. Se gli chiedi se vuole il gelato o la cioccolata, lui ti fa il capriccio. Prova a dirgli che c’è una bella sorpresa per merenda e poi dagli quello che c’è, vedrai che non si lamenterà. Trova del tempo per stare con lui con tranquillità, da soli. Vienilo a prendere qualche volta prima della nanna pomeridiana, quando puoi, e passa del tempo solo con lui. Santiago ha 3 anni, è piccolo, non te lo scordare!”

Io di tempo con lui ne passo tanto, completamente dedicata, intendo. Tutte le volte che siamo a casa insieme, che faccio notte, o quando torno dal lavoro. A casa non ho mai un secondo per me, tranne le mattine che è all’asilo e io ho la notte. Allora, al mattino, vado a correre o a giocare a tennis. Ma quando c’è lui sono sua. Per terra, con i puzzle, con il memory, che adora e nel quale è bravissimo, con matita e quaderno, con le costruzioni. Arrivo a casa e sono sua. Però è vero, in casa ci sono sempre Pietro e Leo e il cane e il rumore e la musica e la concitazione. Le porte che sbattono, le sedie che stridono. Insomma, non c’è mai tranquillità. Mi sono fatta il proposito di stare da sola con Goguito e basta. Io e lui, in un ambiente tranquillo, per vedere se piano piano diventa più bravo e obbediente. Devo solo capire dove trovare l’ambiente tranquillo…

Per il resto: “Santiago è un bambino meraviglioso (e anche bellissimo e so che non è un commento molto professionale ma è la verità!”, ruba l’amore. I compagni lo adorano, anche quando fa loro dei dispetti. Non ha mai picchiato nè morso nessuno. Ogni tanto corre e travolge qualcuno, in tal caso lo devo sgridare. Oppure butta giù la torre dei compagni e gli ho quindi spiegato che prima deve chiedere il permesso e magari poi lo può fare anche assieme a loro. Sembra aver capito. Sul controllo della pipì andiamo bene, non ti devi preoccupare: quando si bagna è perché, mentre va al bagno, non fa a tempo ad abbassare le mutande, ma a letto non l’ha più fatta: togli pure le mutandine assorbenti di notte!”

E come quasi sempre accade, è bastato parlarne che le cose sono migliorate tutto d’un botto: nelle ultime settimane Santiago Gabriele ha acquisito una parlantina invidiabile, sta più composto a tavola, urla di meno, mi ascolta di più, non si nasconde quando lo vado a prendere a scuola.

E’ proprio vero che, a volte, bisogna solo saper essere pazienti

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