La gastroenterite a coinvolgimento familiare ha colpito nuovamente a distanza di otto mesi. Dopo Capodanno, volevi che Ferragosto passasse indenne?
Questa volta, a sorpresa, ha iniziato Fabio. Al rientro dalla sagra di paese è stato male. Dieci minuti di orrore, nel cuore della notte. Poi più nulla. Si sa, a lui va sempre di lusso.
Abbiamo inizialmente pensato ad un effetto collaterale legato alla casseula (ebbene sì) servita durante la cena, che noialtri non abbiamo toccato. O, nella peggiore delle ipotesi, ad un rito vudù perpetrato a suo carico da parte di un tizio che ci ha insultato perché, a suo giudizio, avremmo dovuto lasciargli il tavolo non appena terminato il pasto. Invece, dopo soli due giorni, ecco iniziare Santiago. Avevo il turno lungo e quindi sono arrivata a casa dopo le dieci di sera. Mentre mi accingevo a mangiare il piatto di pasta che mi avevano lasciato mi informavo sullo stato di salute dei presenti.
“Santiago diceva di avere mal di pancia, così gli ho lasciato il catino accanto al letto” mi risponde Fabio.
Il tempo di finire la frase ed ecco provenire dei singulti dalla cameretta. Siamo accorsi subito di là. Santiago era in piedi che piangeva. Fabio ha preso un catino e gliel’ha messo sotto il naso un attimo prima che il poverino cominciasse a vomitare.
“Batta, batta!” Si lamentava, facendo una pena indicibile. Però non accennava a fermarsi. Sono riuscita a portarlo in bagno a completare l’opera nel bidet. Miracolosamente il letto è rimasto intonso. Il bimbo un poco meno, ma niente di tragico. L’ho spogliato, l’ho sciacquato sotto la doccia e poi l’ho rivestito. L’ho rimesso a dormire, prima nel lettone con noi, poi nel suo lettino, dove però si è svegliato, costringendomi a stargli nuovamente accanto. Ho iniziato a temere seriamente per la mia salute. Cercavo di respirargli lontano, ma lui mi si faceva vicino con la bocca e con il corpo. Ho capito che sarebbe stato molto difficile scampare a questa piaga incolume.
Il giorno dopo il bambino sembrava normale. Intendo dire, sembrava proprio un bambino normale! Stava seduto, anzichè in piedi. Camminava, anziché correre. Cercava abbracci e coccole. Si sdraiava sul divano mentre guardava i cartoni. Non urlava, non piangeva, obbediva. Insomma, come fanno “i figli degli altri”. Non mi sembrava vero e così ho pensato bene di misurargli la temperatura: 38.2 rettale. Noi genitori ci siamo guardati pensando per un attimo la stessa cosa: ma non potrebbe avere sempre un pochino di febbre? O almeno ogni tanto? Poca poca? Poi ci siamo subito pentiti, ma abbiamo deciso comunque di approfittare della situazione. Siamo riusciti a fare le nostre cose, a lavorare al computer, a pulire casa, persino a parlare tra di noi!
Nel pomeriggio il ragazzo sembrava essersi ripreso. Ad un certo punto però l’ho visto correre spedito verso la sua camera. Sono arrivata giusto in tempo per vederlo afferrare il catino da solo: se lo è portato sotto il mento e ha ripreso a vomitare. Io non so voi, ma io non ho mai visto un bambino di due anni e mezzo così responsabile! Non ha sporcato nulla. Lo teneva mentre piangeva e mi chiamava chiedendo aiuto. Mi ha fatto una tenerezza infinita. Da lì in poi, tutto bene. Ogni tanto mi chiedeva: “Dov’è mio blah?” Intendendo il catino del vomito. “Di là, in camera!” “Ah ok!” Voleva essere sicuro di trovarlo in caso di necessità.
Il giorno successivo tutto sembrava tacere. Mamma mia, l’ho scampata, l’ho scampata davvero!
Invece no.
Ero al lavoro e ho cominciato ad avvertire un senso di nausea, ma anche qualche giorno prima era capitato e si era rivelato un falso allarme. Questa volta si è acuito: ho deciso di mangiare comunque. O la va o la spacca. E ho perso la scommessa.
Peraltro quel giorno avevo prenotato straordinariamente un’ora di tennis con un’amica, all’uscita dal lavoro, cosa che in settimana non ho mai fatto. Non posso disdire, mi dicevo. Vedrai che quando giochi passa tutto, mi incoraggiavo. E’ stata l’ora di tennis più drammatica della mia vita: mentre giocavo avevo la pancia in subbuglio. Sciabordii, rumori inquietanti, borborigmi sinistri… il tutto con questo senso di nausea ingravescente che non mi ha dato tregua nemmeno tra un punto e l’altro. Ho portato a casa un onestissimo 6-3 (ovviamente ha vinto lei, ma sono fiera della mia prestazione) tuttavia, mentre guidavo, avevo ormai l’atroce consapevolezza che mi avrebbero atteso ore molto buie.
Ovviamente a casa non c’era nessuno dei miei. Ho congedato mia suocera e mi sono presa Santiago. Paralizzata sul divano, non osando muovermi, ho poi digitato un disperato messaggio sulla chat di famiglia: “Per piacere, qualcuno può tornare il prima possibile, che devo vomitare?”
Il primo a rientrare è stato Fabio, al quale ho consegnato il bambino che nel frattempo ne aveva combinate di tutti i colori, ribaltando sedie, salendo sui mobili, rovesciando le scatole dei giochi, lasciando ditate sui vetri: non gli sembrava vero che sua madre lo osservasse immobile sussurrando tra i denti solo un flebile: “Basta… per piacere… basta…”. La sua febbre ormai era per me solo un lontano e piacevole ricordo.
Da lì in poi ho ricordi confusi. Mi sono chiusa in bagno e mentre iniziavano le danze ho pensato che il tutto fosse piuttosto simile a un parto: prodromi, travaglio, fase espulsiva. I prodromi riguardavano le prime due ore, quando il “Cous Cous Delizioso” che avevo osato consumare in ospedale (acquistato alla Conad situata sotto il mio Reparto quando ancora speravo di cavarmela tappando il buco nello stomaco) mi si è riproposto in tutte le sue sfumature senza tuttavia darmi alcun sollievo, neppure transitorio. A differenza di mio marito, che una volta svuotata la pancia è tornato a dormire fino al mattino successivo, da lì in poi è iniziato il mio travaglio. Conati a ripetizione, a vuoto. Poi solo vomito biliare. A quel punto ho capito che era giunto l’agognato momento-Plasil. Mi sono preparata l’iniezione, sono uscita dalle mie stanze raggiungendo il soggiorno, me la sono fatta fare e son tornata in bagno.
Santiago mi ha seguito e ha iniziato a bussare alla porta.
“Mammaaaaaaaa! Apiiiiii! E’ ioooooo!”
“No, Santiago, vai via che non sto bene!”
“Mammaaaaaa, tieni blah!”
“No grazie, non ho bisogno di blah, sono già in bagno!”
Per fortuna poi verso le dieci di sera il bambino è andato a letto. Dopo un po’ Fabio mi ha convinto a sdraiarmi. Con lo schienale rialzato continuavo a passare dalla veglia al sonno ad intervalli di pochi minuti. Verrò a sapere poi che nel frattempo anche Pietro ha cominciato a vomitare. Ma anche lui, degno figlio di suo padre, una volta buttato fuori tutto, è tornato a dormire. Io invece mi sono alzata ogni mezz’ora andando, nella fase finale che perciò ho soprannominato “espulsiva”, a completare l’opera. Finalmente, alle cinque di mattina, l’ultimo atto.
Sono morta, il giorno dopo avrei avuto ancora il turno di guardia. Per fortuna i miei colleghi sono riusciti a dividerselo e io ho potuto restare a casa in malattia. Ho dovuto riprendermi in fretta perché dopo 48 ore mi toccava da fare il turno di notte. Il giorno successivo sono riuscita ad andare a lavoro, anche se mi sentivo una sottiletta. Il giorno dopo ancora sono pure sopravvissuta alla notte, sebbene abbia avuto un senso di nausea continuo. E non ha aiutato il fatto che a cena in tavola siano stati presentati nell’ordine: pizza, salsiccia e polenta, pasta coi frutti di mare, funghi trifolati (cucinava mio marito e, come al solito, se sta bene lui, stanno bene tutti!).
Inutile dire che non ho mangiato per quattro giorni, ho perso due chili e forse questo è l’unico lato positivo della questione.
E Leonardo? Lui in verità forse è stato il vero untore: qualche giorno prima che Fabio stesse male la sera della sagra, Leo mi aveva chiamato in ospedale.
“Mamma, quando torni? Sto male: ho mal di pancia!”
Gli ho fatto prendere del Buscopan e poi anche una Tachipirina.
“Mamma, vieni a casa, secondo me ho l’appendicite! Mi fa male in basso a sinistra!”
“Allora tranquillo, Leo, non è appendicite, ma appena riesco arrivo!”
Quella sera l’ho visitato, gli ho chiesto se si fosse scaricato, gli ho fatto un piccolo clisterino, di quei microclismi che vendono in farmacia. Lui è andato in bagno e poi è stato bene.
Ecco, questa volta l’Highlander è stato lui, a turno c’è sempre uno che si salva, ma a me non capita mai.
Il motivo di questo post? Solo per dire che sono letteralmente terrorizzata dall’inizio dell’asilo…