24 luglio 2024

“Prima regola: non si…”

“Modde!”

“Bravo, non si morde. Seconda regola: non si lanciano gli…”

“Ottetti!”

“Gli oggetti. Giusto. Terzo: non si beve…”

“Canna”

“Non si beve a canna! Infine si fa il…”

“Bavo!”

“E si obbedisce alla…”

“Nonna!”

Ripetiamo il mantra almeno dieci volte al giorno nell’ultima settimana.

Siamo in procinto di partire per una meta lontana. Lui starà a casa con la nonna, che però lo porterà al mare. E io sono preoccupata.

Mordere, per la verità, morde solo i suoi fratelli, specie quando gli fanno i dispetti.

Tirare oggetti è purtroppo ancora una sua grande passione. Non solo quando è arrabbiato, intendiamoci. Gli piace lanciare le cose. Punto e basta. E tutte le volte gli si deve spiegare che non si fa, che è pericoloso, che può far male a qualcuno. E tutte le volte è come fosse la prima volta.

Bere a canna è la cosa che ama di più. Deve averlo visto fare a qualcuno. Sicuramente quando giochiamo a tennis. Ma probabilmente anche a casa, quando la bottiglia sta finendo e allora l’ammazzi direttamente con una sorsata. Ed ecco che non si può più stare sereni, non si può più lasciare niente di incustodito. Si acquatta, si avvicina di soppiatto, agguanta la bottiglia e in un batter d’occhio ne tracanna il contenuto. Spesso si bagna tutto e corre all’armadio a cambiarsi da solo. A volte invece beve a più non posso. E poi succede come ieri sera che, una volta a letto, ha pensato bene di vomitare litri e litri di acqua dappertutto. Litri che, a ben vedere, mi chiedo come possano essere stati introdotti in un pancino così piccolo senza che noi ce ne fossimo neppure accorti. 

Fare il bravo risulta proprio difficile. Così come obbedire. Ma siccome adesso capisce eccome (anche prima per la verità, ma ora è molto più evidente quando sfugge lo sguardo di rimprovero con gli occhi da furetto furbetto di chi viene colto in fallo), spesso mi ritrovo a sculacciarlo, a punirlo togliendogli quello che gli piace (in primis i cartoni sul telefono), a metterlo a letto e lasciarlo urlare fino a che non si addormenta.

A furia di ripetere il mantra, con la manina rigorosamente sul cuore, un pochino mi sembra migliorare. Molto, molto lentamente.

Ad aggravare il tutto c’è anche il fatto che, da poco, ha imparato ad entrare ed uscire da solo dal lettino. Era inevitabile. Era già un miracolo che non fosse accaduto prima. Alla sua età Pietro ci faceva dannare uscendo mille volte dopo che era stato messo giù. E lo riportavi dentro. E te lo ritrovavi in sala. E lo riportavi dentro. E te lo ritrovavi nel lettone. 

Adesso anche Santiago riesce nell’impresa e questo complica di molto le cose. Siccome mesi fa, nel tentativo di uscire, era caduto a testa in giù e si era molto spaventato, abbiamo cavalcato l’onda per mesi: “Non ti sporgere che poi cadi, ti ricordi?” Ma adesso, chi lo frega più? E quindi capita che, dopo un certo periodo di silenzio, andiamo a controllare che si sia addormentato (che bravo, nevvero?) e scopriamo che il lettino è vuoto. 

Lo troviamo in bagno a rimirare soddisfatto il mobiletto completamente ricoperto di pregiatissimo dentifricio Parodontax, che ha spremuto accuratamente fino ad esaurimento completo del tubetto.

Lo troviamo sotto il letto matrimoniale, in una mano un barattolo vuoto di shampoo Profesia per capelli ricci, acquistato in negozio professionale specializzato, l’altra mano impegnata invece a spalmare il prodotto su tutto il gres.

Oppure non lo troviamo affatto, ci spaventiamo e ci accorgiamo poi che si è chiuso a chiave nella stanza dei ragazzi (fino a ieri non sapeva infilarla nemmeno nella toppa). Quando è successo c’era la nonna in casa. Ha avuto un mancamento. Gli ha spiegato come fare a infilare di nuovo la chiave nella toppa e da che parte girare per aprire la porta. Poi si è accasciata sul divano.

Il fatto è che ho un figlio delinquente. Non ha nemmeno tre anni e, davvero, spesso mi chiedo come faccia ad escogitare dei piani così perfidi. 

Tutto questo in concomitanza con i primi tentativi di spannolinamento.

Il primo giorno è stato bravissimo. Vuoi che io continuavo a dirgli: “Mi raccomando, ricordati che non hai il pannolino e che hai su le mutandine!”. Vuoi che a lui piacciono un sacco le mutandine. Vuoi che lo diverte proprio vedere la pipì che esce dal pisello. Vuoi che un paio di volte ha fatto anche la cacca da seduto nel water. Fatto sta che il primo giorno mi è sembrato un idillio. Tra me e me però sapevo che non sarebbe durato. Al terzo figlio certe cose le capisci. Naaa. Troppo bello per essere vero.

“Mamma, pipì!”

“Corri corri corri!”

Andiamo al water, giù le mutande, fuori il pisello! Poi laviamo le manine e ci rivestiamo. E pazienza se, dopo cinque minuti appena, il cinema si ripete. Estenuante sì, ma di gran soddisfazione. 

E poi basta. Forse perché siamo andati via? Forse perché in albergo faceva brutto che il pargolo spisciazzasse sulla moquette? Fatto sta che per una settimana non abbiamo più fatto tentativi e la volta successiva è stata un disastro assoluto. Ma la cosa interessante non è che, come accade ai figli degli altri, il bambino si dimentica di avere le mutande. Sta giocando e si dimentica. Ops. Chiama la mamma, ma la pipì ormai è già fatta. Ai figli degli altri la pipì scappa per sbaglio.

No. Santiago Gabriele non fa così. Lui nega fermamente che gli scappi la pipì. Anche se si è appena svegliato dalla nanna e ha il pannolino asciutto. Glielo tolgo, gli metto le mutande. Gli dico di fare pipì, che sicuramente gli scappa. Ma lui nega. “No, mamma. Pipì no!” E io mi fido, povera illusa. E dopo, quanto?, cinque minuti?, ecco allargarsi una chiazza di pipì sotto i suoi piedi. E lui mi guarda, sardonico. E se gli chiedi perché non ti abbia avvisato, non risponde, sogghigna silenziosamente, gli occhi ridotti a due sottili fessure.

O ancora come quella volta che siamo seduti al tavolo, a colorare. 

“Ti ricordi, vero, che hai le mutandine?”

“Sì”

“Se ti scappa la pipì me lo dici, vero?”

“Sì”

E dopo poco si alza, la matita in mano, corre in camera. Lo aspetto, pensando che sia andato a prendere un libro, un gioco, un temperino. Non torna. Lo vado a cercare e lo trovo sotto la scrivania, accovacciato sopra una chiazza di urina. Questa volta si è nascosto. Penso per la vergogna. Penso perché si sia reso conto di aver fatto una cosa sbagliata. Invece no. Mi guarda, ride, indica per terra: “Pipì!”. Sul volto, il solito ghigno ormai familiare. 

Che fare? Sgridarlo? Così magari poi ci prende gusto? Lasciar perdere? Così magari poi non capisce che è sbagliato? Decido di parlargli con calma, anche se vorrei solo sculacciarlo.

“Ma perché non me l’hai detto: te l’avevo appena chiesto! Se ti scappa la pipì me lo devi dire e andiamo subito a farla nel water. Non si fa per terra, proprio no! E non ci si nasconde sotto la scrivania!”

Ogni tanto penso che, comunque, come faccio, sbaglio.

Ma non ci sono alternative e quindi si va avanti come meglio si può, confidando che prima o poi crescerà.

Spero più prima che poi.

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